Omelia (29-11-2009)
Marco Pedron
Attese e aspettative

Inizia il tempo di Avvento, tempo che ci porta e che ci prepara al Natale. L'adventus nella Roma precristiana era l'ingresso, una volta all'anno, della divinità nel tempio ad essa dedicato. Adventus, da advenio, vuol dire venuta. Liturgicamente l'avvento è il periodo che prepara alla nascita di Gesù il 25 dicembre. Sul piano personale, l'avvento è quello spazio aperto perché un "figlio" e una "nascita" possa accadere in noi. Dio nasce ogni anno il 25 di dicembre. Non è un dato rituale, cronologico, tradizionale. E' un fatto: Dio continua a nascere; Dio, dove c'è spazio e disponibilità, di certo verrà.
Dio viene, questo è certo. Non è certo però se noi lo vedremo. L'avvento (l'avvento non è tanto un periodo dell'anno ma una dimensione della vita) è la certezza che l'Oltre, l'Altissimo, il Nuovo, una nascita, sta per avvenire in noi.
L'av-vento crea av-venire proprio perché si apre nel presente a ciò che incontra e crea così un futuro diverso inseminato dalla novità che viene accolta.
L'av-vento diviene av-ventura perché qualcosa di nuovo entra nella nostra vita e genera una novità verso cui andare e da cui siamo attratti e richiamati.
L'av-vento è sempre un inter-vento di Dio che vuole far nascere qualcosa di nuovo in noi, sorprendendoci, meravigliandoci, portandoci lontano, molto lontano dalle nostre rive di sicurezza.
L'av-vento può essere spa-vento perché è l'irruzione del non aspettato, del diverso, dell'altro da noi. Il non conosciuto fa sempre paura e tendiamo naturalmente a respingerlo, a temerlo. Dio è molto più presente in ciò che non conosci rispetto a ciò che conosci.
E' famosa la storia di quel barbone che mendicava lungo la strada raccogliendo a mala pena quel poco per sfamarsi giorno per giorno. E pensava: "Ma Dio, perché non mi dà mai una mano? Perché non passa mai?". Passa un altro barbone che gli chiede un'offerta: "Tu che chiedi a me un'offerta. E cosa ti posso dare io?". Così cerca nelle sue tasche dove c'è un po' di grano. Prende un chicco di grano e lo dà all'altro barbone. A sera ti fuori quello che ha raccolto durante la giornata per sfamarsi: un po' di pane, una mela e i chicchi di grano. Ma che sorpresa: c'era un chicco di grano d'oro!
Sì, Dio era passato ma non come credeva o pensava Lui. Non l'aveva riconosciuto. Dio non era come lui se l'aspettava. Se non ti aspetti nulla avrai tutto ciò di cui hai bisogno. Non stabilire come Lui verrà o dovrebbe venire: lascia aperta la porta e fatti sorprendere!

L'avvento è un tempo di attesa. Ma noi confondiamo spesso attesa e aspettativa. L'attesa non ha oggetto: è apertura e accoglienza. L'attesa accetta tutto ciò che le viene incontro (ad-ventus). L'aspettativa no: "Voglio questo" e ha ben chiaro cosa vuole e cosa non vuole. L'aspettativa accetta solo ciò che ha già stabilito; il resto lo rifiuta. Solo l'attesa può portare a progredire, a novità, ad evolvere, perché l'aspettativa è far entrare ciò già si conosce, che già sappiamo, che già ci aspettiamo.
L'aspettativa fa conto su di sé: sei tu che decidi cosa è buono o no per te; cosa Dio ti deve mandare; come devono essere gli altri; cosa tu devi o non devi essere. L'attesa, invece, è pregna di fiducia: se arriva vuol dire che è buono per me o che comunque è importante per me anche se io non lo capisco o di primo acchito o non lo accetto.
L'aspettativa non ha tempo: vuole tutto e subito, tutto e presto. Tutti i mezzi di comunicazione riducono i tempi di attesa: per parlare il telefono; per comunicare internet, per muoversi l'auto; per lavare la lavatrice; per cucinare il microonde. L'attesa, invece, conosce il tempo: ogni gravidanza ha il suo tempo. Ma è il tempo necessario per il nascere di ogni cosa.
L'aspettativa ti porta a vivere nel futuro: "Quando verrà quella cosa, allora sì che sarò felice... allora sì che sarò realizzato.. allora sì che sarò qualcuno... allora sì che...". E così uno corre, corre e corre perché solo quando avrà quella cosa sarà felice. E se poi non arriva allora ci si deprime. Attesa, invece, è vivere il presente: "Sento che non sono completo, sento che mi manca qualcosa, sono aperto e disponibile a quello che verrà. Ma intanto vivo oggi e sono felice; se verrà qualcos'altro, tanto meglio".
L'aspettativa chiude perché tu hai già deciso cosa deve arrivare e cosa devi trovare. E se non lo trovi invece di chiederti se stai sbagliando a cercare (non lo trovi!) ti arrabbi e ti ritieni il più "sfigato" del mondo. L'attesa apre: non decide cosa deve arrivare ma è aperta a raccogliere quello che verrà. Non sa cosa verrà ma è disponibile ad accoglierlo, a farlo entrare, a valutare se può far parte della sua vita.
Non ti sei ancora sposato (oppure sei single di ritorno, cioè dopo il fallimento di un primo rapporto d'amore) e inizi a pensare: "Caspita non mi sono ancora sposato; accipicchia non ho famiglia e il tempo passa!". Allora l'aspettativa si fa forte. Qualunque donna vedi ti chiedi: "Potrebbe essere quella giusta?". E se il tempo passa si infiltra il pensiero: "Non troverò mai nessuno, non ce la farò mai; nessuno mi vuole". Se poi incontri una donna la investi di tutte le tue aspettative per cui non sarà più importante chi hai davanti ma sposartela, avere un rapporto con lei, perché altrimenti, dice la tua aspettativa, non sarai realizzato. E te la devi anche far andare bene e non "brontolare tanto", né con te né con lei: perché se poi ti lascia, riuscirai a sopportare il senso di sconfitta?
L'aspettativa genera ansia: c'è una meta da raggiungere e guai se non la raggiungiamo. E' simile a quando tu vai a fare un esame all'università: ti aspetti di superarlo (ovviamente!) ma questo ti crea ansia perché è una valutazione su di te. Se uno vive così tutte le cose (se non le raggiungo vuol dire che non valgo) allora è destinato a vivere perennemente nell'ansia. Quando tu devi fare un lavoro entro un fissato tempo e non sai se ce la farai hai un'ansia terribile. L'aspettativa dice: "Devi farcela a tutti i costi" e ti sottoponi ad uno stress eccessivo. Sovente siamo ansiosi perché siamo sempre sotto la pressione delle nostre aspettative; non ci permettiamo di deludere, di fare le cose a metà, di sbagliare, di non essere all'altezza, di rinunciare. Tutto dovrebbe andare come la nostra mente decide. Ma la nostra mente a volte è un tiranno senza umanità. L'attesa genera pace: non c'è un traguardo da raggiungere per cui non sono sotto pressione. Io faccio le mie cose e vivo la mia vita e lascio la porta aperta. Se qualcosa deve arrivare, verrà, senza preoccupazioni.
L'aspettativa genera delusione. Alcuni anni fa andai a trovare mia madre e la trovai con "il muso". Capii che c'era qualcosa, ma mia madre non diceva una parola. "Dove hai preso qual maglione? E quei pantaloni?", mi chiede. E giù una sfilza di domande sul mio modo di vestire. "Dovresti vestire come tutti gli altri preti." - ecco il punto! - "così come ti vesti non mi piace affatto!". Al che io risposi: "Pazienza è un problema tuo!". "Ah, così rispondi a tua madre (molto offesa); non ti ricordi più tutto quello che io ho fatto per te (tentativo di colpevolizzazione)! Pensi di potermi trattare così adesso solo perché sei diventato grande! (vittimismo)". La grandezza delle tue aspettative rivela il grado di delusione e di amarezza che dovrai vivere.
C'è una ragazzina di terza elementare che sa di essere bella, simpatica e intelligente. Sfortuna vuole che sia anche ricca. Ora, riconosciuta da tutti come la "bella" e la figlia che tutti vorrebbero, la bambina ha un opinione di sé veramente alta, eccessivamente alta. Ai suoi compagni fa fare quello che lei vuole; decide cosa deve fare Tizio e cosa deve fare Caio; ma anche come deve farlo Tizio e come deve farlo Caio. Decide come ti devi vestire e perfino cosa devi dire e quando. Questa ragazzina che si ipervaluta non potrà che formarsi secondo lo schema: "Tutto e subito; tutto gira attorno a me". Da grande potrebbe essere una donna con delle aspettative enormi rispetto agli altri. D'altronde questo lo sta imparando adesso da piccola: ha tutto quello che vuole. Tutto quello che si aspetta lo riceve. Stiamo formando una donna che sarà delusa dalla vita perché non le darà tutto quello che lei vorrà.
L'attesa, invece, genera sorpresa. Non ti fai delle aspettative, non hai già in mente cosa dovrà capitarti o venirti incontro per cui sei disponibile a prendere ciò che viene. C'erano due fidanzati e girava per l'aria l'idea di sposarsi. Ora, nessuno dei due aveva ancora pronunciato la fatica frase: "Mi vuoi sposare?", ma entrambi sapevano che era questione di poco tempo. Viene il giorno dell'anniversario di fidanzamento; lui le dice: "Domani sera, giorno del nostro anniversario, ho una cosa da dirti e una da darti". Lui le chiese di sposarlo - e lei se lo aspettava-; ciò che non si aspettava era il regalo. Lui non le regalò l'anello (che neanche nel fidanzamento le aveva regalato) ma un bellissimo viaggio per loro due in Kenya. Lei fu molto delusa. Peccato! Non era meraviglioso il regalo!? Ma non fu una sorpresa perché contraddiceva ciò che lei voleva. Se tu hai deciso cosa ti deve arrivare non potrai godere della novità della sorpresa; non riuscirai a meravigliarti, a stupirti, a felicitarti per ciò che t'è arrivato e che tu non ti aspettavi.
L'aspettativa vuole modificare. Vuole che gli altri si comportino come piace o vogliamo noi. "Se mi amassi faresti così!; se mi amassi lo faresti per me!; se vuoi bene al papà e alla mamma non fai queste cose": no! Non ti pare egoistico (tu lo chiami amore!) che gli altri facciano come vuoi tu?
L'attesa accetta, casomai espone i suoi desideri: "Mi piacerebbe; avrei bisogno che tu; se tu facessi così... io mi sentirei più...; mi aiuterebbe se tu...".
Ad una coppia di fidanzati che è venuta per "preparare le carte" ho chiesto: "Dite qualcosa al partner". E lei: "Mi aspetto che tu mi renda felice!" (povero lui!). Se tu ti aspetti che lui ti renda felice, tu fai sì che la tua vita dipenda da lui. E quando non sarai felice lo incolperai che non è in stato in grado di renderti felice, e crederai di avere davanti un incapace perché non è in grado di fati felice. Se tu ti aspetti che lui ti renda felice allora ti stai preparando ad una serie infinita di delusioni, perché gli stai chiedendo quello che lui non può fare. Stai delegando al partner quello che è un tuo compito; non ritenerti sfortunata quando scoprirai che lui non può esaudire la tua richiesta.
Una donna di settant'anni è venuta a messa con suo figlio quarantenne. "Ti è piaciuta la messa, mamma?". "Sì, sì, andrebbe anche bene se il prete avesse i capelli più corti, se non suonasse la chitarra e se non si facessero quei canti da discoteca, se predicasse di meno e se ci fosse meno gente". "Ah!... e anche se finita la messa non ci fosse tutta questa festa, questo salutarsi e sorridere". Tradotto: se io fossi un altro le andrei bene. Cosa si aspetta da me quella donna? Lei ha già in mente come io dovrei essere per cui non può vedermi perché io non corrispondo a ciò che lei ha già deciso che io e i preti dovremmo essere.
Donna sposata: lei lavora part-time suo marito fino alle otto di sera. Lei dice: "Ma sa, padre, io voglio bene a mio marito; è che non lo sopporto quando è in casa!". Per fortuna che torna alle otto di sera! Cosa si aspetta questa donna da suo marito?

Questo vangelo lo abbiamo sentito anche quindici giorni fa nella versione di Mc. Lc usa il linguaggio apocalittico, un genere letterario tipico del tempo, un po' come la fantascienza oggi.
Di fronte ad avvenimenti storici rilevanti, importanti come la caduta di un re, una disfatta militare o un colpo di stato, gli scrittori usavano queste immagini per descrivere il forte impatto emotivo di ciò che era accaduto nel cuore e nell'immaginario della gente. Qui si parla chiaramente di Gerusalemme e della distruzione del tempio. Finiva un mondo (il giudaismo) e ne nasceva un altro (il cristianesimo).

Il termine che Lc usa "Figlio dell'uomo" proviene dall'A.t., da Dn 7,13-14. Figlio dell'uomo (che significa uomo comune) indica una figura che partendo da condizioni umili è chiamato a vivere qualcosa di grande, ha una missione importantissima, è in intimo contatto con l'Altissimo.
Non è meraviglioso? Anch'io, in fin dei conti, non sono molto importante. Anch'io tutto sommato sono "nessuno". Eppure posso essere Figlio dell'uomo. Anche per me c'è qualcosa di grande! Anch'io sono grande! Anche la mia vita ha senso profondo per me e per il mondo. Certo il Figlio dell'uomo non nasce senza sconvolgimenti, senza "angoscia, ansia" (21,25) e sconvolgimenti. Tutto ciò che è grande, vero e potente ha un costo. E il diventare noi stessi ha il costo più grande.
Se guardo all'investimento in termini di coinvolgimento, pericolo, esposizione, difficoltà, lascio perdere. Ma se guardo a ciò che posso essere, allora ne vale proprio la pena; ma veramente la pena! Questa è la nostra vera libertà (21,28): diventare ciò che possiamo essere.

Poi il vangelo parla di vegliare, di non dormire (21,36).
Lett. agrypneo, vegliare, vuol dire "non farsi prendere o catturare dal sonno" (agrypneo: catturare; ypnos, sonno). Gesù lo diceva sempre: "Tenete gli occhi aperti, non dormite; non addormentatevi; non anestetizzatevi". Perché poi ciò che accade sembra un laccio improvviso, un imprevisto, ma non è così.
Un padre scopre che suo figlio "si fa" da sei mesi. "Ma dov'eri prima? Hai dormito finora?".
Un giorno due sposi si svegliano e guardandosi negli occhi si dicono: "Non ci amiamo più!". Ma avete dormito finora? Dov'eravate?
Un giorno uno si sveglia depresso, non ha più voglia di vivere: "E prima dov'eri? E' stato il cibo di ieri sera che ha provocato tutto questo?".
"Sono vuoto, non provo più niente!". Per forza: non ti emozioni, non ti sorprendi, tutto è scontato; tu sai già tutto per cui non hai più niente da imparare. Lo credo bene!
Quanta gente dice di star male, di soffrire, di essere insoddisfatta o di accontentarsi. Ma cosa fa per uscire dalla sua situazione? Alcuni dicono che "non hanno tempo; è impegnativo; è difficile". E allora, continua a dormire!
Altra gente, invece, dice di voler cambiare. Ad un incontro la trovi; ad un altro la trovi ancora; se vai da un'altra parte ancora quelle stesse persone. Ci sono dappertutto ma sono sempre quelli. A qualcuno bisognerebbe dire: "Basta! Sono stanco di vederti qui: non impari mai niente!". Un proverbio arabo dice: "La natura della pioggia è sempre la stessa ma fa crescere le spine nelle paludi e i fiori nei giardini".
Anche i percorsi spirituali possono essere una droga: ne fai tanti e pensi che questo basti. Ma se tu non vegli, non ti metti in gioco, non scavi dentro di te, non succede niente. Io opto perché i corsi e i percorsi individuali abbiano una fine: altrimenti diventano una fuga dalle proprie responsabilità. Fare un cammino ti deve servire, deve farti cambiare, ti deve mettere in gioco; se diventa il biberon allora non serve più.
Alcune persone vanno in chiesa da decenni e non sono mai cambiate. Ma vi pare possibile? Anche i farisei dicevano: "Noi abbiamo Dio per Padre", e si giustificavano così. Era un paravento, una droga, un'ubriacatura. Perché preghi Dio non vuol dire che tu non dorma.
C'è chi dorme e non vuole svegliarsi perché svegliarsi vorrebbe dire vedere qualcosa che non si vuole vedere. Magari si scopre di avere tanto dolore dentro; magari si scopre di aver sbagliato vita; magari si scopre di non essere stati amati o desiderati; magari si scopre di essere sempre stati soli; magari si scopre di avere delle difficoltà e dei blocchi dentro. Allora meglio dormire.
Un uomo cade dal quinto piano e si spacca le ossa. All'ospedale un amico gli dice: "Ti ha fatto proprio male la caduta". "No, non è stata la caduta a farmi male, è stata la fermata". Fermarsi, svegliarsi, fa male!
Molta gente è tossicodipendente: c'è chi dipende dalla mamma. Un uomo, quarant'anni, sposato, due figli, porta ancora lo stipendio alla mamma. E quando la moglie gliel'ha fatto notare, lui ha detto: "La mamma è sempre la mamma!".
C'è chi dipende dalla cultura, dall'istruzione. C'è un ragazzo che si sente "un incapace e un deficiente" solo perché ha la terza media. Ma invece è simpatico, ama, è disponibile e generoso; è una persona con la quale si sta benissimo e che ti mette sempre a tuo agio.
C'è chi dipende dal lavoro o dal pensare sempre. Lavorare, fare, pensare, permette ad alcune persone di essere sempre fuori di sé, di non centrarsi mai. Finché fanno non sono mai in contatto, stanno lontani da sé.
C'è chi è drogato dall'autorità. Quello che dice il superiore (chiunque esso sia) è verità, non si discute. C'è un mio amico che dice: "L'ha detto il vescovo!". "E, allora?".
C'è chi è ubriaco di ambizione: "Quando mio figlio sarà laureato; quando avrò raggiunto quel posto; quando potrò permettermi quella cosa; quando sarò arrivato lì...". E così si vive in funzione di quello.
C'è chi è ubriacato dalla paura di rimanere da solo. Una donna, stanca del marito, si è trovata un altro uomo. Gliel'ha detto; gli ha detto che non lo ama più e che non vuole più saperne di lui. Ma lui le ha risposto: "Puoi fare tutto quello che vuoi e avere chi vuoi, purché alla sera torni a casa!".
C'è chi è ubriacato dal "mal d'aver troppo" o "male del progresso". Il "mal d'aver troppo" è quella malattia che tu hai quando più hai e meno sei felice. Hai di tutto ma non sai gustare, assaporare niente, per cui è come non avere niente. C'è un'unica cura: per un po' di tempo non avere più nulla.
Un uomo si lamentava col suo padre spirituale: "Ti prego, aiutami. La mia casa è un inferno! Viviamo in sole due stanze io, mia moglie, i miei quattro figli e la famiglia di mia moglie. Non c'è spazio per tutti e c'è sempre una grande confusione". "Va bene", disse il padre. "Ti aiuterò, ma devi fare tutto ciò che ti dirò". L'uomo promise e il padre riprese: "Quanti animali hai?". "Una mucca, tre capre e otto galline". "Prendi gli animali nella stanza con voi e torna fra una settimana". Il pover'uomo, abbattuto, ubbidì. Dopo una settimana tornò distrutto: "Sto impazzendo: il puzzo, il rumore, la confusione: ti prego fa qualcosa!". Il padre gli disse: "Riporta gli animali in cortile e torna fra una settimana". Quando l'uomo tornò era felice: "Padre, la casa è meravigliosa, pulita e spaziosa. Un vero paradiso!".
Avere gli occhi aperti vale per tutte le realtà: personali e sociali. La gente si lamenta per chi ci governa: li abbiamo votati noi, li abbiamo eletti noi, li sosteniamo noi, sono i nostri miti. "Il sonno delle coscienze genera mostri": quando l'uomo dorme tutto è possibile.
Non dobbiamo mai dimenticare che il nazismo è sorto in un paese cristiano come la Germania e il fascismo in uno stato devoto per definizione come l'Italia; nella cattolica Spagna c'era un'altra dittatura. Da un popolo addormentato può nascere qualunque personaggio.
Il vangelo si conclude con le parole: "Vegliate e pregate" (21,36).
Una grande forma di preghiera, allora, è non prendere sonno, non dormire.
Quel verbo "pregate", infatti, deomai, vuol dire "aver bisogno, necessitare, desiderare, pregare". Si ha bisogno (preghiera) di non prendere sonno, di non alienarci, di non vivere in un mondo che non c'è.
Pregare vuol dire vegliare, non permettere cioè che il nostro cuore prenda sonno e non provi più la gioia per la vita, l'entusiasmo per le cose nuove, la passione per ciò che ama, lo stupore di fronte alla bellezza.
Pregare vuol dire vegliare, non permettere cioè che la nostra anima non si assopisca e non senta più il richiamo di Dio, il richiamo della vita che ci chiama a definirci e a diventare Figli dell'uomo.
Pregare vuol dire vegliare, non permettere cioè che la nostra mente si lasci plagiare da filosofie e da idee o gestire dai sensi di colpa o manipolare dalle nostre paure.
Pregare vuol dire vegliare perché ciò che chiamiamo "Dio" sia Dio e ciò che chiamiamo "amore" sia amore e ciò che chiamiamo "male" sia male. Perché se si dorme, si scambiano le cose.
Pregare vuol dire vegliare, in modo da esserci a questo mondo, da voler lasciare un segno, una traccia, un'impronta, in modo da far sentire a me e al mondo che io ci sono.
Il Figlio dell'uomo (la tua realizzazione, l'essere te stesso, realizzare il nome che Dio ha messo nel tuo profondo) non può comparire, non può uscire, non può succedere, se tu dormi (21,36).

Tutti ci spegneremo un giorno (moriremo!): alcuni, però non si sono mai accesi. Tutti ci addormenteremo nel sonno della pace: ma alcuni non si sono mai svegliati. Per tutti la vita ha fine: ma per alcuni non ha avuto neppure inizio.

Pensiero della Settimana

Tu verrai e io lo so.
Non permettere che le cose da fare ti diano ansia: resta sveglio.
Non permettere che la facciata, che ciò che sembra e che appare,
ti nasconda il cuore delle cose e l'anima delle persone:
resta sveglio.
Non permettere di avere così tante cose da fare
da non percepire più cosa provi e cosa senti: resta sveglio.
Non permettere che ciò che fan tutti diventi ciò che fai anche tu
solo perché lo fan tutti: resta sveglio.
Non permettere che l'odio, la rabbia, il cinismo inondino il tuo cuore
così da non provare più meraviglia e stupore per ciò che vive: resta vivo.
Non permettere che il "duro quotidiano" cancelli i tuoi sogni,
le tue aspirazioni e il desiderio d'infinito: resta vivo.
Non permettere a nessuno di comandarti, di gestirti, di toglierti la tua vita,
così da perderti o da annullarti: resta vivo.
Non permettere al dolore di eliminare dalla memoria la gioia,
né alla sofferenza di non farti credere più nel Padre: resta vivo.
Non permettere a ciò che succede di lottare per un mondo nuovo, migliore, un mondo meno alienato e ottuso: resta attento.
Non permettere alle dicerie di convincere il tuo cuore,
né alle soluzioni facili di ingannarti: resta attento.
Non permettere che qualcosa zittisca ciò che hai dentro,
la forza, i sentimenti, la tenacia: resta vivo.
Non permettere alla disperazione di vincerti, né all'angoscia di smarrirti,
né alla paura azzerarti: resta fiducioso.
Non permettere che nulla ti stacchi da Lui,
ma rimani sempre attaccato alla sorgente della Vita: resta unito a Lui.