Omelia (17-09-2000) |
mons. Antonio Riboldi |
Case aperte, mense imbandite per chi ha fame Come è facile parlare di amore per i poveri! E per povertà intendo ogni forma di bisogno: bisogno di pane, di casa, di affetto, di comprensione. La povertà è sempre un "vuoto" creato da mille circostanze; alle volte colpevole ed alle volte no; un vuoto che chiede di essere riempito dalla ricchezza dell'amore. Qui veramente l'amore può esprimersi nella sua totalità, al punto che i poveri diventano la nostra vera ricchezza. Sempre che consideriamo felicità il dare più che l'avere; vedere vivi gli altri, anche se questo richiede il dono della nostra vita. Può essere duro parlare di amore in questi termini, ma è il solo modo di farlo quando si dà all'amore il vero significato evangelico che è quello della condivisione. Come ha fatto del resto Dio che per esprimere l'amore a noi uomini, "poveri, ma veramente poveri senza il suo amore", condivise totalmente in Gesù la nostra povertà fino a dare la vita perché noi avessimo la pienezza di vita. Quando Gesù parlò di questa condivisione, annunciando la Sua passione e morte, scatenò la reazione di Pietro "che lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma Gesù, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: "Lungi da me, Satana! Perché tu non la pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini". Poi, convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; e chi perderà la vita a causa mia e del Vangelo, la salverà"" (Mc 8, 27-35). Qui la parola condivisione espelle una volta per tutte dalla nostra coscienza il diffuso concetto di amore come elemosina, che è uno sguardo distratto su chi tende la sua mano, non è mai un chinarsi seriamente su di lui fino a preferire la sua sofferenza ad ogni nostro interesse. Riporto ancora un ricordo nel mio ormai lungo viaggio tra chi soffre veramente, tra "quelli lì", come dicevamo la domenica scorsa. Vivendo nelle baracche del Belice, a gomito con tutte le povertà che una vita in baracca ti scarica addosso ogni giorno e per tanti anni, mi sentivo come schiacciato. E non mi bastava vivere con la mia gente gli stessi disagi inumani in baracca. Questi quasi non li sentivo nemmeno. L'amore mi portava a fare qualcosa: tutto quel poco che un sacerdote poteva fare. Quante volte chiedevo pubblicamente almeno la solidarietà, la condivisione. Tentavo con una energia ed un coraggio che ancora oggi non mi so spiegare, di far capire che non chiedevamo compassione o altro: volevamo solidarietà, comprensione, condivisione. Ma era un discorso che cadeva sempre nel vuoto, se non nel disprezzo. Una domenica, ricordo, venni invitato in una città del Centro Italia per fare conoscere il dramma del Belice. Con dignità e con forza proponevo la storia di tanti baraccati che attendevano giustizia. Coglievo nell'aria una curiosità, che però non si spingeva oltre. Qualcuno poi si attendeva chissà quali filippiche contro questo o quello: e di fronte ad un discorso di chiamata in causa, non nascondeva neppure la delusione ed il dissenso. Alla fine l'appello fu interpretato nel solito modo. Ci fu chi passò tra i banchi chiedendo la solita elemosina. Era gente ricca. Finita la Messa mi venne messo tra le mani un gruzzolo di monete. Mi sentii ribellare il cuore pieno di sdegno. Come se mi avessero gravemente offeso nella mia dignità e con me avessero offesa tutta la mia gente e le loro povertà. Non avevo chiesto soldi. Avevo offerto di soffrire con chi soffriva troppo. Piansi di nascosto per la grande offesa ricevuta proprio in una Eucaristia. Quale fede era la loro? E dove era la loro carità? Mi vennero in mente, e da allora mi sono sempre restate in mente come metro di giudizio per la mia fede le parole di Giacomo che la Chiesa ci offre oggi: "Che giova, fratelli, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Uno potrebbe dire: tu hai la fede ed io ho le opere: mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede" (Gc 2, 14-18). C'è tutta una conversione da compiere in questo senso nelle nostre chiese. Appaiono troppo chiuse in se stesse, disinteressate delle povertà del vicino, al punto da non accorgersi delle lacrime che molte volte scavano il volto del vicino in chiesa; al punto da non vedere che c'è qualcuno che sfiora l'abisso della disperazione per tanti motivi che potrebbero a volte essere rimossi con un briciolo di quel benedetto amore che si fa condivisione. Bisognerebbe avere la capacità di abbattere le robuste pareti che ci siamo costruiti per difendere la nostra tranquillità o la tranquillità delle nostre comunità; in modo che diventiamo case aperte, mense imbandite per chi passa e ha fame, o ha sete, o è ignudo, o non sa a chi affidare le sue lacrime. La nostra vita diventerà una casa messa sottosopra da tanti fino a perdere la sua compostezza, fino a sentirci veramente in croce. Ma avremo da Dio la corona che Lui mette a chi ha saputo amarlo nel fratello. Senza contare che le nostre Chiese diventeranno finalmente credibili, vere testimonianze dell'amore che Dio ha per gli uomini e non avremo più motivo di parlare di crisi. |