Omelia (27-12-2009)
mons. Roberto Brunelli
Quel Padre che non era Giuseppe

Dopo gli avvenimenti connessi con la sua nascita, e sino a quando, trentenne, egli diede pubblicamente inizio alla sua missione, i vangeli tacciono sulla vita di Gesù. Unica eccezione, l'episodio che si legge oggi: aveva dodici anni, quando con sua Madre, con Giuseppe e con una comitiva di parenti e conoscenti andò a Gerusalemme a celebrarvi la Pasqua. Verosimilmente, nell'occasione egli compì anche il rito con cui a quell'età i fanciulli ebrei sul piano religioso diventano adulti, assumendosi appieno le relative responsabilità; sembra suggerirlo il fatto che appunto come un adulto egli si trattenne nel tempio ad ascoltare e interrogare i maestri nella fede, e come un adulto senza doverne chiedere il permesso ai genitori. Questi ultimi, già avviati sulla via del ritorno, quando si accorsero che non era nella comitiva tornarono a cercarlo; trovatolo, lo rimproverarono; ma egli diede loro una risposta inattesa: con la serietà di un adulto, manifestando piena consapevolezza della propria identità e della propria missione, disse: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?"
Quel Padre che non era Giuseppe occupava la mente e il cuore di Gesù sin da ragazzo, come poi sarebbe stato per tutta la vita terrena sino a quando, prima di spirare sulla croce, "gridando a gran voce disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito" (Luca 23,46). Peraltro, anche il suo facente funzione di padre, cioè Giuseppe, si preoccupò di attuare, in umile obbedienza, la non facile missione che Dio gli aveva affidato. E così la Madre, autodefinitasi "serva del Signore" (Luca 1,38). Tutti e tre dunque i componenti della famiglia di Nazaret, Gesù, Maria e Giuseppe, avevano in Dio il loro riferimento, la loro guida; era lui il basilare legame che li teneva insieme.
Di questi tempi tutti dissertano sulla crisi della famiglia tradizionale: abbandoni, separazioni, divorzi, spesso imposti da uno dei coniugi e subiti dall'altro con conseguenti amarezze e rancori, senza riguardo per i figli, contesi o sballottati tra i contendenti; liti senza fine; talora la rovina economica o la percezione del fallimento dell'intera esistenza. Sulle cause di questi naufragi, sociologi psicologi politici e altri "esperti" discutono, individuandone diverse: inadeguata preparazione agli impegni del matrimonio; il fatto che entrambi i coniugi lavorino fuori casa, con conseguenti frustrazioni e carenza di dialogo; l'egoismo che mira solo al proprio benessere (la cultura del "mi piace-lo voglio"), non importa se a spese altrui; la sete di una presunta libertà, con il rifiuto di impegni definitivi; gli esempi dati da personaggi famosi e sbandierati da cinema giornali e televisione...
Tutte queste motivazioni, cui altre potrebbero aggiungersi, trascurano però la causa prima, la ragione più profonda della crisi della famiglia: il rifiuto che Dio vi entri, come comune punto di riferimento e quindi di unità. Amarsi, ha detto qualcuno, non è guardarsi negli occhi, ma guardare insieme nella stessa direzione; e per i cristiani la direzione è quella della meta cui è offerto loro di tendere. La crisi della famiglia è una crisi di fede; per questo la famiglia di Nazaret è un esempio, un modello. La loro non è stata una vita facile: Giuseppe si è accollato un figlio non suo; la Madre se l'è visto inchiodare a una croce; delle sofferenze di lui, poi, non parliamo neppure. Non è stata una vita facile; ma sono rimasti uniti, e uniti con amore, perché ciascuno di loro era teso a realizzarsi non secondo calcoli di umana convenienza, di personale interesse, ma secondo Dio.