Omelia (03-01-2010)
Omelie.org (bambini)


Di solito, dopo aver ascoltato tutt'e tre le letture proposte dalla Liturgia, ci soffermiamo sul Vangelo; durante l'Avvento abbiamo concentrato la nostra attenzione sulla Prima Lettura, per andare alla scoperta delle promesse che Dio Padre ha pronunciato per mezzo dei suoi profeti.
In questa seconda domenica dopo Natale, vorrei che insieme rivolgessimo una cura particolare alla Seconda Lettura. Diciamoci la verità: tante volte risulta un po' trascurata.
Persino mentre viene proclamata, ci sono persone che perdono il filo, che si distraggono. Non per cattiveria o superficialità, li capisco: è che quasi sempre si tratta di brani tratti dalle lettere di San Paolo e questo grande Apostolo scrive in maniera un po' difficile, oppure affronta argomenti complessi. Per noi tutti è più facile seguire e comprendere la Parola di Dio quando ci presenta fatti, persone, avvenimenti.
Però il brano di quest'oggi della Seconda Lettura, merita che gli si dedichi un piccolo sforzo della mente e del cuore.
L'apostolo Paolo scrive rivolgendosi alla comunità dei primi cristiani della città di Efeso, nei territori della Turchia di oggi. La lettera comincia con una preghiera, un inno, un vero e proprio canto di gioia e di benedizione.
La voce dell'Apostolo proclama benedetti Dio Padre e il Figlio Gesù, per tutte le meraviglie che, nell'amore e per amore, hanno compiuto:
"Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d'amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato."

Proviamo a rileggerla, usando parole più vicine a noi, così da poter far nostra questa preghiera di benedizione:
"Benedetto sei tu, o Dio, che ci hai colmati di ogni bene da sempre.
Benedetto sei tu, o Dio, che ci hai sognati e voluti fin dalla creazione del mondo.
Tu ci ami così tanto che ci circondi di ogni tenerezza e hai di continuo cura di noi.
Per questo, ti aspetti che corrispondiamo al tuo amore crescendo nella capacità di amare, per somigliare sempre più a Gesù, tuo Figlio.
Così, noi che ti possiamo chiamare Padre, potremo veramente essere a tutti gli effetti tuoi figli adottivi."
Dopo questa splendida preghiera, san Paolo si rivolge direttamente agli Efesini e comincia con il far loro i complimenti: "avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell'amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere".
L'Apostolo dice ai cristiani di Efeso tutta la sua gioia perché ovunque sente parlare di quanto sia forte la fede di questa piccola comunità e come siano capaci di amore gli uni per gli altri.
Sono veramente parole di grande elogio, che fanno sicuramente piacere a chi le ascolta. Pensate se qualcuno, magari il Vescovo, inviasse una lettera da leggere alla fine della Messa e in questa lettera ci scrivesse: "Mi rallegro tanto perché da tutti sento parlare bene di voi. Tutti mi descrivono la vostra fede che è forte e salda. Tutti mi testimoniano quanto vi volete bene tra voi, come condividete ogni cosa e come siete capaci di accogliere ogni nuovo parrocchiano, facendolo sentire subito amato."
Se arrivasse una lettera così, non ci sentiremmo tutti orgogliosi e felici? Anche per gli Efesini sarà stato bello sentirsi rivolgere quei bei complimenti da un grande Apostolo, come san Paolo.
Questo infaticabile missionario del Vangelo aggiunge, nella sua lettera, ancora qualcosa che è molto importante: "il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi."
Cioè, san Paolo sta dicendo nelle sue preghiere per gli Efesini, chiede al Signore Dio un dono ben preciso: che tutti i credenti possano ricevere il dono della sapienza per poter arrivare a possedere una profonda comprensione di Dio e del suo sogno su ciascuno di noi e sull'umanità intera.
Cerchiamo di fermarci con calma su questo desiderio di san Paolo: la preghiera che nasce dal cuore di un santo e di un Apostolo è densa di significato, perciò vogliamo assimilarla bene.
Paolo chiede il dono della sapienza, che non è il sapere tante cose, l'aver letto tanti libri, l'avere preso una laurea. La sapienza è la capacità di assaporare le cose che viviamo, arrivando a comprenderle fino in fondo. Gli avvenimenti tristi e quelli lieti, quelli che ci fanno cantare e quelli che ci fanno piangere: viverli in profondità, immergerci in essi, e così, passo passo, crescere nella comprensione di noi stessi, del mondo e delle persone che ci stanno accanto.
Ebbene, dice l'apostolo Paolo, io vorrei che voi, abitanti di Efeso, poteste diventare sempre più sapienti. Cioè sempre più capaci di comprendere che cosa Dio sogna per il mondo e per ognuno dei suoi figli.
Sapete perché san Paolo ha questo desiderio, fino al punto da chiederlo nella preghiera? Perché sta pensando a uno dei più grandi pericoli che possono capitare a chi vive nella fede: l'abitudine.
Fare l'abitudine al rapporto con Dio è una terribile malattia, che ci rende pian piano annoiati, insipidi, quasi inutili. Tutti noi credenti rischiamo di fare l'abitudine al mistero grande di Dio, perché ne sentiamo parlare da che siamo nati!
C'è il rischio di vivere tutto come un'abitudine, qualcosa che è sempre stato così, ma che non ci tocca la vita, non ci coinvolge fino nel profondo di noi. Rischiamo di "abituarci" ad essere cristiani: abituarci a dire le preghiere, prendere l'abitudine a venire a Messa, dare per scontato il festeggiare il Natale e la Pasqua, credere che sia ovvio poter ricevere i sacramenti...
Un missionario comboniano, che vive in Africa, in una sua lettera agli amici rimasti in Italia, citava un proverbio africano: "Chi abita vicino alla cascata, dopo tre giorni non sente più il rumore dell'acqua".
Questo è il nostro rischio! La cascata produce un rumore fragoroso, perché l'acqua che cade dall'alto, che precipita sulle rocce e poi si riversa fino a terra riempie lo spazio intorno di suoni potenti, che assordano. Vicino a una cascata, per potersi parlare, anche se si è a pochi passi gli uni dagli altri, è necessario gridare per riuscire a sentirsi a vicenda.
Però, dice saggiamente il proverbio africano, succede qualcosa di strano: quando si va ad abitare vicino a una cascata, quel rumore sembra, giorno dopo giorno, sempre meno assordante. Pian piano ci si fa l'abitudine: diventa normale sentirlo come sottofondo di tutte le giornate e di ogni notte. Diventa ovvio, quasi naturale, parlare gridando, anche nelle conversazioni tra amici. Persino un elemento naturale così maestoso, così impressionante come può essere una cascata spumeggiante, diventa normale, ovvio, banale... basta poco tempo e non gli si presta più attenzione.
Questo è il rischio che può correre la nostra fede: siccome ci troviamo costantemente immersi nel dono straordinario dell'amore di Dio che non ci abbandona mai; siccome siamo abituati a trovarlo sempre presente, qui nel tabernacolo; siccome ogni domenica possiamo ascoltare i suoi inviti attraverso la Sacra Scrittura; siccome sappiamo che possiamo sempre ricevere il suo perdono, rischiamo di mettere il Padre Buono come una sorta di sottofondo, di ritenerlo ovvio, dovuto, banale.
Ma come, Lui che è Dio, che ha creato ogni cosa, che vuole la nostra amicizia, che mantiene ogni sua promessa, noi lo releghiamo al ruolo di sfondo, come il rumore di una cascata a cui ci si è fatta l'abitudine? No, non può essere!
Eppure accade, sapete... San Paolo sente che questo è un rischio pericoloso: mette in guardia i credenti della città di Efeso e invita anche tutti noi a mantenere mente e cuore ben svegli, per non cedere alla forza dell'abitudine.
In questo la Liturgia ci aiuta moltissimo, perché ogni anno ci permette di fermarci a contemplare il cammino di Gesù nella sua vita di uomo: le settimane dell'Avvento e del Natale, per esempio, servono proprio ad aiutarci a ricordare che cosa l'amore di Dio ha fatto per noi, lungo la storia; a osservare e riconoscere i tanti doni che ora, oggi, proprio in questo tempo, il Padre Nostro continua a offrire a ciascuno; a rinnovare la certezza che il Suo amore non verrà mai meno e ci condurrà alla festa senza fine della vita eterna.
Usiamo bene, allora, questi ultimi giorni delle vacanze di Natale per dedicare un po' del nostro tempo, un po' dei nostri pensieri, al Signore Dio.
Rendiamo di qualche minuto più lunga la preghiera del mattino e della sera, proprio per dire al Signore il nostro grazie, facendo anche qualche breve elenco: per il sole che vedo fuori dalla finestra; per la colazione che mi è stata preparata, per i compiti delle vacanze che ormai ho completato; per il tempo passato a giocare con gli amici; per la buona cenetta tutti insieme in famiglia; per il calduccio piacevole che c'è in casa, mentre fuori fa tanto freddo; per il letto morbido e accogliente in cui tra poco mi tufferò...
Se terremo occhi e cuore aperti all'azione dello Spirito Santo, non correremo il rischio di fare l'abitudine e daremo sempre al Signore Dio il giusto posto nella nostra vita.

Commento a cura di Daniela De Simeis