Omelia (17-01-2010) |
Marco Pedron |
Trasformare l'acqua in vino 2, 1 Tre giorni dopo ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Osservate quante volte nel vangelo si parla di nozze, di festa e di pranzi. Gesù era un uomo che viveva, che banchettava, che festeggiava: non era di certo un'asceta. Il Dio di Gesù è il Dio della gioia, della festa, del piacere, dell'ebbrezza della vita. Non si può comprendere il Dio della croce se non si comprende prima questo Dio. Dio vuole la felicità e il piacere per ogni uomo. Dio vi vuole felici, ricordatevelo! Perché ne abbiamo fatto un Dio serio, dolorifico, che vuole solo sacrifici e oboli? Dio non è nella noia, nel trattenersi, nel chiudersi, nel non provarci per non peccare, nelle formalità. E' il Dio della vita, delle persone appassionate, di chi osa e vive intensamente. In Gv la madre compare qui all'inizio del suo ministero e alla fine della vita pubblica sotto la croce. La vita di Gesù fu, per Gv, lontano dalla madre. Gesù si staccò da lei, visse la sua vita e fece le sue esperienze. Maria rimase comunque presente pur nell'assenza, infatti la ritroviamo ai piedi della croce. Sembra essere questo il ruolo di ogni genitore: non immischiarsi nella vita del figlio, lasciarlo andare, ma essere presente nel momento del bisogno, della necessità. Il figlio sa che lui, il genitore, ci sarà. Sa che c'è un porto sicuro, una casa accogliente, un luogo dove sarà sempre accolto. E' l'amore genitoriale (che è più evoluto rispetto all'amore dei fidanzati o degli sposi: dovrebbe essere un'evoluzione!), l'amore maturo di chi ama aldilà del ritorno immediato o per se stesso, di chi ama in maniera incondizionata, di chi ama senza l'aspettativa del ritorno. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. E' Gesù l'invitato (alle nozze) o è Lui che invita alle nozze (del vino nuovo, dell'uomo con Dio)? 3 Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino" "Non hanno più vino": gli uomini vorrebbero festeggiare le nozze, ma non possono. Non sono più capaci d'amore, di amare, di vivere. Non c'è più gusto nella loro vita, non c'è più sapore nelle loro giornate. Quando vedi certe facce, certi volti segnati solo dalla tensione e dalle rughe della chiusura, amaramente devi constatare: "Non c'è più vino qui". Quando ascolti certe prediche su Dio, certi discorsi religiosi piatti, formali, moralistici, che non hanno slancio, passione, energia devi amaramente constatare: "Qui non c'è più vino". Quando la chiesa è impegnata solo a difendere, a porre limiti su cosa non bisogna fare, a limitare la creatività; quando soffoca le sue voci creative, quando non permette la libertà dell'uomo o quando ingabbia trasmettendo paura e ansia, devi amaramente constatare: "Qui non c'è più vino". Quando vedi certe coppie che si trascinano nel loro matrimonio con routine, con pesantezza, con screzi, litigi e ripicche continue devi amaramente constatare: "Qui non c'è più vino". Quando le persone non provano più nessun slancio, nessuna commozione, non si stupiscono più, sono diventate ciniche su tutto, abituate a tutto, allora devi constatare amaramente: "Qui non c'è più vino". Quando le persone si trascinano stancamente, senza entusiasmo, senza voglia di vivere, senza sussulti, allora devi amaramente constatare: "Qui non c'è più vino". 4 E Gesù rispose: "Che ho da fare con te o donna? Non è ancora giunta la mia ora". "Che ho da fare": è una frase dura e decisa, sottolinea una distanza trai due interlocutori (Mc 1,24; Mt 8,29; Lc 4,34; 8,28). Dice una seccatura e un pericolo, qualcosa che si vuole assolutamente evitare. Gesù non vuole saperne del problema, sembra che non gli interessi, che non lo tocchi. Gesù era un uomo libero, sottratto dalle pressioni e dai condizionamenti della gente e dei cari. Agiva in nome di Dio e in nome di nessun altro, chiunque fosse. Con questa risposta Gesù mette in chiaro con sua madre, ma con ogni persona, che lui non farà mai niente di dettato dall'esterno perché lui è venuto per compiere la volontà del Padre e solo a Lui è dovuta l'obbedienza. 5 La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà". "Fate quello che vi dirà": e i servi si sono fidati. Hanno fatto una cosa stranissima (riempire 600 litri d'acqua, a quel tempo!), pazzesca. A ragione, avrebbero potuto dire: "Ma sei pazzo!". Ma nella vita bisogna fidarsi, af-fidarsi a qualcuno e fare tutto quello che ci dirà, anche se non lo capiamo, anche se lo troviamo strano. Quando si individua una persona saggia, vera, trasparente, spirituale e si sente di poterci fidare di lei, ho imparato che bisogna fidarci totalmente anche se non capiamo cosa ci dirà o perché ce lo dirà: "Fate quello che vi dirà". A volte non capisco cosa la vita mi dica; anzi capisco benissimo cosa mi propone ma mi sembra stupido, irrazionale, illogico: "Fate quello che vi dirà". A volte mi porta lì dove non voglio andare e siccome non capisco il perché mi dico che non ha senso andarci: "Fate quello che vi dirà". A volte mi dico che certe cose sono difficili, ostiche, dure, che certe montagne non ha senso affrontarle se me ne posso stare in pianura: "Fate quello che vi dirà". A volte sento che mi spinge o mi porta lì dove non vorrei andare, che mi invita ad espormi quando non sarebbe il caso: "Fate quello che vi dirà". A volte mi fa vivere esperienze dolorose, di sofferenza, di solitudine, di rifiuto, di non-senso: "Fate quello che vi dirà". La salvezza è fidarsi perché la Vita non sbaglia mai. Vorrei un giorno lasciarmi portare e lasciarmi condurre da Lei; vorrei non farmi più troppe domande che esprimono solo la mia paura e la mia resistenza, ma fare quello che mi invita a fare così, semplicemente, senza remarci troppo contro, anche perché è una grande e inutile fatica remare controcorrente!; vorrei un giorno aver fiducia e lasciarmi portare, e finché vado gustarmi il viaggio, sicuro di essere al sicuro. 6 Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. "6 giare": vuol dire qualcosa come 500-600 litri di vino. 6 indica la nostra imperfezione (il 7 numero della perfezione, del completamento, della maturità): ci manca qualcosa di essenziale, di vitale, non siamo completi. "Per la purificazione dei Giudei": l'acqua di queste giare serviva per purificarsi, per lavarsi. Sono i vecchi riti, le vecchie abitudini, le vecchie consuetudini e norme: hanno il gusto dell'acqua stantia che è diventata insipida. Con quest'acqua non si può celebrare nessuna festa. "Di pietra": indica non solo il materiale delle giare ma una vita dura, insensibile, rigida, pietrificata. E' una vita che si è annacquata, pietrificata, sclerotizzata nei soliti rituali: manca un respiro più ampio, diverso, oltre. È' quando un uomo trascorre giornate prive di gusto, di sapore: vive, ma senza senso. "La giara" di pietra è il segno dell'irrigidimento della propria devozione, delle proprie regole religiose (le leggi ebraiche); mentre il vino è il segno della vita e della gioia del vangelo. Con quell'acqua, con quella devozione non si può celebrare nessuna festa. Allora: certi riti religiosi, stantii e ripetitivi, che non trasmettono più nulla, più nessuna vitalità, più nessun slancio, non possono metterci in comunicazione con il Dio della Vita. Sono ripetuti solo perché sempre fatti, perché ciò che conosciamo non ci fa paura. E non si sono accorti questi sposi che il vino stava per finire? Ma dove vivevano? Che sciocchi! E non siamo anche noi così quando "finché tutto va bene non facciamoci troppi problemi, non poniamoci troppe questioni o domande" per non rovinare l'idillio. E quando sarà finito tutto, che faremo? Non è da sciocchi dire: finché ce n'è beviamo e non pensiamo al futuro? Finché è vino d'accordo: ma quando tu sei esaurito, finito, depresso, cosa accadrà? Non è da sciocchi? Non bisognava pensarci prima? La routine, la quotidianità se non ne diventiamo consapevoli pialla tutto, appiattisce ogni cosa, anche i sentimenti, anche l'amore. Se non c'è uno slancio più grande, se non c'è il desiderio di qualcosa di oltre, se non c'è la ricerca per riempirsi, per uscire dalla monotonia, dalla ripetitività delle cose, allora davvero si muore. Si muore lentamente ma inesorabilmente ogni giorno quando rinunciamo a fare qualcosa di nuovo, di diverso. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando per paura rinunciamo ad uscire dagli schemi e siamo sempre i soliti. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando rinunciamo a dirci tutto il bene che ci vogliamo, tutto l'amore e la fortuna che abbiamo nel conoscerci. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando non ci ricarichiamo, non frequentiamo nessun incontro dal respiro ampio, dagli orizzonti più grandi, che ci faccia toccare la ricchezza e la vitalità del nostro vivere e di quello che siamo. Si muore lentamente e inesorabilmente quando per pigrizia rinunciamo a quello che ci piacerebbe, a quello che desideriamo perché ci costa un po' di fatica o un po' di faccia. Si muore lentamente, ma inesorabilmente davanti alla tv, al bar a fare i soliti quattro discorsi da osteria, tra gli amici nella ripetitività dell'agire e delle chiacchiere ("è sempre quello che si dice: basta!"). Si muore lentamente ma inesorabilmente quando non ci si ferma a guardarsi negli occhi; quando non ci si guarda allo specchio e si continua a mentirsi, a dirsi castronerie e "balle" (come se potessimo mentire a noi stessi!); quando ci nascondiamo dietro alle nostre facciate, alla nostra razionalità, intelligenza, cultura, sapere, per "incantare gli altri" e "ce la giriamo, ce la "smeniamo". Appariamo perfino bravi, acuti, profondi: stiamo solo sfuggendo a noi, a ciò che abbiamo dentro al Dio della Vita che vorrebbe riempirci della vita. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando si delega la responsabilità agli altri, a questo mondo infame, a questa società depravata. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando si dice: "Non ce la farò mai; impossibile!"; quando ci si arrende perché è difficile o perché ci costringe a scegliere o a faticare. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando non ci si abbraccia più, quando non ci si accarezza più, quando la tenerezza non alberga più nei nostri occhi, nelle nostre mani e nel nostro corpo, perché l'unica cosa che ci interessa è prendere, afferrare, conquistare, dominare. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando non si vuole più mettersi in discussione, quando ci si ritira dall'imparare, dal cambiare, dall'evolvere: allora la crescita si blocca. Ma bloccare un albero, un uomo, una vita è farlo morire. La vita non si può bloccare: è inarrestabile! Si muore lentamente ma inesorabilmente quando si ragiona così: "Anche questa è fatta", quando si va a messa perché ci si è sempre andati, quando si prega perché lo si è sempre fatto, quando si crede come si è sempre creduto. Tutto diventa freddo, solito, normale, cioè piatto. E allora si teme il calore, la vibrazione dell'esistenza e della Vita. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando corriamo dietro a tutti, quando vogliamo accontentare tutti, quando vogliamo fare l'impossibile (se è impossibile non si può fare!) perché abbiamo troppa paura di deludere, di essere rifiutati o che gli altri ci lascino o che non ci vogliano più bene. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando si continua a criticare, a sminuire, a deridere, a insinuare malignità: non ci accorgiamo che il male viene dal male, come il vino dalla vite, e l'acqua dalla sorgente. Ogni sorgente sgorga il suo "vino", la sua acqua, il suo liquido, quello che è. Si muore lentamente ma inesorabilmente quando continuiamo a sorridere lì dove non c'è proprio niente da sorridere, a "portare pazienza" lì dove le persone ci umiliano, ci pestano e ci calpestano: continuiamo a chiamare "amore per l'altro" la nostra paura. Si muore lentamente ogni giorno che non si vive, che ci si ritira, che preferiamo preservarci. E così una mattina ci alzeremo e non ci riconosceremo più: non ci sarà più vino, non ci sarà più amore, non ci sarà più vitalità. Non ci sarà più niente, saremo vuoti, esauriti, finiti. Allora molti diranno: "E' successo all'improvviso: mi sono alzato e tutto era finito". "Tutto era finito? Niente finisce all'improvviso". Si muore lentamente e inesorabilmente, non all'improvviso. Alcune persone vive sono già morte; altre sono in fin di vita; altre presentano serie malattie di morte; l'anima soffre e piange, ma pochi se ne accorgono. Per morire basta non far nulla, trascinarsi, rinunciare. Ogni giorno mi alzo la mattina e devo decidere se vivere o se, lentamente ma inesorabilmente, morire. 7 E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo. "Fino all'orlo": non siamo riempiti di tutto, fino all'orlo? Non abbiamo tutto, ma proprio tutto e anche di più? Ci manca qualcosa? Sono bisogni veri quelli che abbiamo? Cosa rincorriamo? Eppure per quanto abbiamo non ci basta mai, non siamo mai sazi, mai felici, mai in pace. Guardate le nostre case, guardate le nostre stanze, guardate la nostra vita se non è piena di tutto: eppure! Pieni di tutto ma vuoti; pieni d'ogni ben di Dio fuori ma svuotati dentro; ricchi esternamente ma poveri internamente. Non basta avere ettolitri ed ettolitri di liquido se è acqua; è solo il vino che ci inebria, che fa festosa la nostra vita. E' inutile aggiungere acqua ad acqua e riempirci sempre di più: è sempre acqua! Ci vuole qualcosa di radicalmente diverso, perché è su di un altro piano che devo cercare ciò che desidero. 8 Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono. "Ora attingete": Dio ha già compiuto il miracolo: si tratta solo di attingere. Dio creandoci ha già compiuto il miracolo, ci ha già fatto grandi: si tratta solo di attingere, di crederci, di abbeverarci alle nostre sorgenti profonde. Il miracolo si è già compiuto in ciascuno di noi, basta solo raggiungerlo, basta solo tirarlo fuori, farlo emergere. 9 E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo. "Chiamò lo sposo": alla luce di Gv 3,29, Gesù si identifica con lo sposo di Israele, il partner di ogni uomo (Ef 5,22-33). Ogni uomo è "sposa" di Gesù. Prima di sposarsi tra di noi, ogni uomo è chiamato a sposare, a vivere, a far proprio Gesù. Prima di sposarsi con un uomo o una donna, ogni uomo deve sposare Gesù, la sua anima, il suo profondo, ciò che lui è. Sposarsi vuol dire prendersi per quello che si è, accettarsi, accogliersi, accogliere che si ha un mondo interiore e che non si può vivere prescindendo da esso. 10 E gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono". Il segno di Cana è il segno di come una vita vuota, finita, spenta possa ritrovare slancio, vitalità, "vino". Trasformarsi, divenire, evolvere dovrebbe essere una dimensione del nostro vivere. La vita è un lungo e ininterrotto cammino di trasformazione. In noi può esserci di tutto: niente è male, ma ogni cosa ha un profondo significato e può essere trasformata. Nulla dev'essere eliminato o nascosto, anche se apparentemente è oscuro o cattivo, debole o infermo, ma tutto ha un senso e una possibilità di trasformazione. Nulla dev'essere eliminato ma tutto dev'essere trasformato. Qualunque cosa ci sia successa o siamo non dev'essere nascosta, non dobbiamo vergognarcene, perché abbiamo la grande possibilità di trasformarla. Non esiste nulla che sia male per sé, ma tutto può essere trasformato in qualcosa di unico, di prezioso e di vitale. Se guardo alle mie ferite, alle mie dipendenze, ai miei legami malsani, ai miei limiti, scopro che, se trasformati, possono diventare la mia ricchezza e la mia forza. L'eucarestia stessa è una trasformazione: un po' di pane e di vino vengono trasformati nel corpo e sangue di Cristo. Perché crediamo a questo e dubitiamo del fatto di poter trasformare la nostra vita? O l'ambiente in cui viviamo? 11 Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui. Cana ci invita a cercare più in profondità, ad altri livelli, ad penetrare all'interno del nostro vivere comune e di tutti i giorni, spesso vuoto e insipido. Ci invita a trovare un'ebbrezza, una gioia, un'estasi profonda. Abbiamo bisogno di trovare qualcosa che dia un senso e un sapore a tutte le cose. Non lo troviamo nella superficie delle cose ma dentro, nel nucleo. Cana ci invita a passare dall'acqua al vino, a mutare. Il fatto che le giare siano 6; il fatto che siano di pietra; il fatto che servissero per la purificazione dice l'orizzontalità, lo stato di incoscienza della coppia, di questo matrimonio o semplicemente dell'uomo. Gesù è il vino, la settima giara. Si può vivere in profondità soltanto se si è capaci di passare da un orizzonte ad un altro: dall'orizzontalità della coppia alla verticalità di cui il vino (sangue, spirito, vino eucaristico) è simbolo. E' il grande passaggio della vita: passare dall'orizzonte del materiale a quello spirituale; dalla carne all'anima; dalla superficie alla profondità; da fuori a dentro. La coppia di Cana, dove avviene questa trasformazione, questo passaggio dall'acqua al vino, dall'orizzontale al verticale, si unisce in un nuovo amore al quale presiedono valori spirituali, ontologici. La forza di quest'amore è quello di essere capace di mutazioni. La coppia di Cana rappresenta il matrimonio che ciascun uomo deve fare con sé, unire i suoi lati opposti, maschile e femminile, in modo che non siano più contrapposti, ma uniti; non più in tensione fra di loro ma armonizzati. La coppia di Cana insegna il segreto di ogni rapporto e di ogni matrimonio: l'essere capace di mutazioni, il cambiare, il modificarsi, l'evolvere. Se un matrimonio avrà questa capacità e questa elasticità, se saprà non fossilizzarsi sulle antiche posizioni, se avrà la forza del nuovo e della crescita diventerà paradiso d'amore; altrimenti diventerà l'inferno dell'amore. Cana "qanah", infatti, dal verbo qanoh vuol dire "acquisire". Dalla stessa parola viene anche Caino "qain", e non è un caso. Cana è il matrimonio riuscito dell'uomo, mentre Caino quello non riuscito. Caino ha come scopo di acquisire Abele: "habel", infatti, significa "colui che non è". Caino dovrebbe acquisire, diventare ciò che ancora lui non è, il suo lato non costruito, non sviluppato, che non è ancora niente, ma che potrebbe essere. Ma Caino uccide, reprime, manipola, sopprime Abele, il suo lato non sviluppato. E' ciò che succede concretamente in moltissime persone che uccidono, non sviluppano le loro risorse, i loro doni, le loro qualità. E' ciò che succede quando uno della coppia sopprime, usa, soffoca l'altro. E' ciò che succede quando una coppia si vive solo in una dimensione o solo nella solita routine: allora si uccide la parte creativa, innamorata, complice, intima, gioiosa della coppia. E' ciò che succede quando ci fermiamo di fronte alla possibilità di svilupparci, di diventare diversi, di cambiare. In tutte queste situazioni Caino uccide Abele. Abele non è stimato da Caino, ma è considerato da Dio. Le parole "considerato" e Gesù hanno le stesse vocali: Gesù è colui che considera. Ciò che è disprezzato dall'uomo (Caino ne è il simbolo), ciò che è soppresso, ucciso, soffocato dall'uomo, è invece considerato da Gesù. E Caino uccide il fratello, quella parte di sé non sviluppata, non acquisita. La sofferenza di integrare Abele, l'altro da sé, diventa la sofferenza che uccide l'altro da sé, sia essa lingua viperina, pensiero omicida, sesso pervertito, coltello e tutti i suoi prolungamenti (qain, sostantivo, significa "lancia"). A Cana il matrimonio riesce: i due sposi "acquisiscono", sono capaci di una mutazione (l'acqua in vino) che salva la festa, che salva il loro amore, che salva le nozze. Ciò che non era riuscito a Caino riesce a Cana. Chi è capace di mutazioni si salverà. Chi non è capace morirà con i suoi peccati e con la sua condizione: si condannerà da solo. Cana ci invita ad accettare e ad accogliere come salvifico il fatto della mutazione, del crescere, dell'acquisire, dell'imparare. Pensiero della Settimana La malattia (del corpo e dell'anima) è il rifiuto di trasformarsi. Ciò che non si tras-forma si de-forma. Cioè che non cresce, diminuisce. Ciò che non cambia, muore. Ciò che non muta, finisce. Tutto ciò che vive, evolve. La vita non si può fermare, arrestare, bloccare. Farlo vuol dire ucciderla. La vita si può solo seguire e finché la seguo divengo ciò che sono, ciò per cui sono stato creato, ciò che devo divenire. |