Omelia (27-12-2009) |
Marco Pedron |
Andare e lasciar andare La prima domenica dopo Natale la chiesa celebra la festa della Santa Famiglia. Quando si parla di questa famiglia si pensa ad una famiglia idilliaca, armonica, perfetta. Sembra che Giuseppe, Maria, Gesù, siano stati così perfetti da non litigare mai, da non avere incomprensioni, da non avere problemi. Ma se noi guardiamo il vangelo (e cos'altro dovremmo guardare?), questo ci dà un'immagine ben diversa. A me fa bene vedere che anche nella famiglia di Gesù non si capivano. Molte famiglie sono terribilmente preoccupate o in ansia quando non riescono più a capirsi. Credono di aver sbagliato tutto, di aver sbagliato l'educazione, che i figli siano cattivi. Non è così! Il vangelo di oggi ci presenta una situazione molto dura, ostica, della famiglia di Nazareth. Gesù ha dodici anni: per gli ebrei era l'età del passaggio all'età adulta. Fino ad allora, un ragazzo era considerato alla stregua di una cosa, ma quando raggiungeva quest'età diventava adulto con tutte le responsabilità e i diritti della situazione. Questa è la prima nascita: diventare liberi, sottrarsi alle aspettative di chi amiamo per poter poi percorrere la propria strada, la strada di Dio. Il grande pericolo è di rimanere infantili, magari dei bravi bambini, ubbidienti e ossequiosi: ma così facendo rimarremo immaturi per le relazioni e idolatri per Dio perché sordi alla sua chiamata. Fa' che solo Dio sia il tuo Dio: nessun altro! Né tua moglie, né i tuoi figli, né tua madre, né tuo padre! Il vangelo dice che "come tutti gli anni", secondo l'usanza vanno a Gerusalemme. Quando ho iniziato a dire: "Io non vengo più a messa, in vacanza con voi!", i miei genitori mi hanno detto: "Ma come!? Abbiamo sempre fatto così! E' usanza! Cos'è questa novità?". Era usanza, si era sempre fatto così, era difficile accettare che le cose cambiavano. Che Gesù venga "perso a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano" dice ciò che accade in ogni famiglia ed è ciò che deve accadere in ogni vita. Tuo figlio vive con te: tu lo cresci, tu gli insegni, lo introduci nel mistero della vita e gli insegni cosa è buono e cosa non è buono, sei il suo esempio e il suo modello. Lui impara da te, ti stima perché sei suo padre e sua madre; ti stima al di là di ciò che fai o non fai per il solo fatto che tu l'hai messo al mondo e sei il suo riferimento. Tu gli comandi e lui ti obbedisce. Ma piano piano, senza che tu te ne accorga, come per Gesù, lui si stacca da te, lo perdi. All'inizio la frattura è nascosta: qualche risposta, qualche incomprensione, qualche screzio, qualche difetto che ti mostra, qualche domanda in più, qualche risposta che ti mette in difficoltà. All'inizio sembra che si possa ricomporre tutto, sembrano nient'altro che piccole crepe. E invece no! Lo stai perdendo. E' che spesso non te ne accorgi proprio: "Il mio bambino (ma ha 15 anni!); il mio cucciolo (ma è alto 1,85!); la stampella della mia vecchiaia (ti piacerebbe eh!)". Su di un questionario per essere ammessi ad un'azienda una donna scrive sulla sua situazione familiare: "Ho due cuccioletti, due bambini di 32 e 34 anni". Bambini!? Cuccioletti!? La leggenda dice che uno dei sette dolori di Maria fu quello di portare Gesù al tempio poco dopo la nascita. In fondo è l'unico, vero, grande e profondo dolore di ogni madre e di ogni padre: accettare che il proprio figlio sia proprietà della vita; che mio figlio sia, diventi, Suo figlio. Per un genitore, per Maria, per Giuseppe, il figlio è proprio. L'hanno fatto nascere loro; hanno faticato, sudato, speso soldi, tempo, ansie e notti per lui. Allora si insinua piano piano l'idea che sia proprio, che sia una proprietà appartenente a loro; si insinua l'idea che l'aver fatto così tanto per lui (cosa reale e grandiosa) possa darci il diritto di accampare dei diritti, delle pretese, delle aspettative. Per una madre il figlio è l'essere che più l'ha amata: anche se tutto attorno fallisse, anche se nessuno la amasse, anche se lei stessa concepisse la sua vita come fallimentare, un figlio è una motivazione valida per vivere. Un figlio ti ama perché non può vivere senza di te. Per un figlio (quand'è piccolo!) sei importante, grande, essenziale. Un figlio dà ad una madre (almeno all'inizio) la certezza che qualcuno la amerà. E non è un caso che le madri che vivono in contesti di emarginazione, di rifiuto e di povertà abbiano molti figli. Trovano in loro la ricompensa e l'amore che non trovano né in sé né attorno a sé. Una madre un figlio "se lo mangia": finché si tratta di coccole e di baci va bene, ma se se lo mangia emotivamente, se non lo lascia andare, se lo soffoca, se gli sta sempre con il fiato sul collo, se lo iperprotegge, se si oppone alla sua crescita, allora se lo mangia davvero, allora rischia di castrarlo, rischia di uccidergli l'anima. Un genitore, una madre deve coscientemente sacrificare il proprio figlio, offrirlo al tempio, "perderlo". Deve cioè accettare che quel suo figlio non è suo; che quella persona è un'altra persona da sé; deve rompere il cordone ombelicale e lasciarlo andare. Deve accettare che quel figlio è figlio di Dio, che ha la sua strada, che deve andare verso la sua Gerusalemme, verso il suo progetto e il suo piano, costi quel che costi. Là deve andare. Opporsi è combattere contro Dio, contro il destino. E' duro, ma è necessario, è vitale. Dev'essere stato duro per Maria lasciare andare Gesù, magari era il suo unico figlio (o il primogenito: il prediletto!), sul quale aveva puntato tutto, tutte le attese erano riposte in lui. Maria e Giuseppe gli dicono: "Ti abbiamo cercato preoccupati!". E' così difficile lasciarlo andare; è così difficile accettare che sia grande ("Sono così belli da piccoli!"); è così difficile lasciare che ci provi, che possa sbagliare; è così difficile smettere di tirarlo fuori dai problemi, di preoccuparsi sempre, di iperproteggerlo; è così difficile lasciargli il suo spazio; è così difficile non volergli togliere tutte le difficoltà! Vorremmo che nostro figlio non soffrisse, non si sentisse mai solo, mai isolato; che mai litigasse, che mai fosse triste, che mai avesse problemi e facciamo di tutto per evitargli tutto ciò credendo di fare molto bene. Siamo animati da amore, questo è vero, ma non gli facciamo molto bene. Togligli tutte le difficoltà adesso: e che accadrà quando a 25 anni la fidanzata lo lascerà? Riuscirà a reggere il peso della frustrazione? Si ucciderà? Andrà in depressione? Sarà pronto, avrà le forze in quel giorno per sopportare e reggere la sofferenza dell'evento? O ne sarà sommerso? Quando lo trovano perché non gli dicono: "Oh che bello che tu faccia questo! Che bello che tu sia qui ad insegnare ai dottori della legge nel tempio"? No, gli dicono: "Perché ci hai fatto tutto questo?". Sono concentrati sul loro dolore, su quello che tutto questo provoca a loro, sul loro distacco. Non si accorgono di quanto sia importante per Gesù quello che sta succedendo, non si accorgono che è bene per lui. E' il grande passaggio della vita: passare dall'amore perché sta con noi all'amore perché è bene per lui. L'amore fa soffrire. Amare è voler il bene dell'altro anche se ci può far soffrire, anche se è doloroso, anche se può "far male". E quando lo trovano gli fanno la domanda classica che tutti i genitori rivolgono ai loro figli: "Perché ci hai fatto così? Ma lo sai quanto ci fai stare male? Lo sai quanto soffre tua madre? Guarda cosa facciamo per te! Non pensi a noi? Non sai i sacrifici che noi abbiamo fatto per te!". E' il dolore del genitore che si sente tradito: il figlio fa', pensa, ha piani diversi da quello dei genitori. Il genitore vive tutto questo come un tradimento ma non è un tradimento: è il figlio che si sta staccando. Lo sta perdendo e questo è veramente duro. Un genitore si sente davvero lacerato dentro, soffre terribilmente. Ma non è un tradimento del figlio. Sta solo crescendo. Gesù non è mica tanto tenero nei confronti dei suoi genitori. E' duro, quasi aspro, "cattivo": "Non sapevate che devo occuparmi delle cose del padre mio?". E' la rottura: Maria e Giuseppe sentono di aver perso il figlio. Gesù è consapevole che il suo vero padre è Dio e che la sua vera madre è la Vita. Ci vuole un grande amore e molta (ma proprio molta!) spiritualità per tutto ciò. Ci vuole molta fede e molto amore per accettare e far passare il proprio figlio dalla mia paternità e maternità al fatto che lui è figlio di Dio e della Vita, che deve seguire Dio, non suo padre, che deve seguire la Vita, l'anima, la Voce e non sua madre. Per i genitori c'è il dolore della perdita. Per il ragazzo c'è la paura del futuro, di ciò che sarà, del se ne avrà le forze, del dove andare e del cosa diventare. E non bisogna giocare con questa paura per tenerlo legato a sé. Bisogna esserci per rassicurare la sua paura e bisogna buttarlo fuori perché vada per la sua strada. Deve cercare personalmente, deve provarsi lui nel gioco, nel lavoro, nella scuola, con gli amici, nella competizione, nel rapporto con i pari e con l'altro sesso; si pone domande, ha dubbi; ricerca, cade e si rialza, brancola, è "alle stelle o alle stalle"; deve (è un imperativo!) trovare chi è e non ha altra strada che quella di provarsi e di provarci. Toglierli questa possibilità, tenerlo stretto a sé, togliergli la paura e la frustrazione inevitabile è fargli il più grande male: non svilupperà le risorse per crescere e diventare "grande". Maria sente tutta l'estraneità di suo figlio. Sente che non è suo, che non lo può influenzare. Quanto male (ed è capibile!) provano i genitori quando il figlio ad una certa età inizia a non uscire più con loro alla domenica; preferisce altri a loro. Quando il maschietto trova la "ragazza", cosa prova la madre? O cosa prova il padre geloso perché la propria figlia ha trovato il "ragazzo"? Si sentono estromessi, tagliati fuori, estranei: anche Maria ha passato tutto questo. E' necessario! Deve andare e noi dobbiamo imparare a lasciarlo andare. Maria e Giuseppe non capiscono. Giuseppe non capisce cosa sta accadendo alla sua fidanzata che è incinta; poi deve scappare in Egitto e non sa il perché; vede nascere questo suo figlio tra canti, angeli e Gloria; non capisce la risposta di Gesù al tempio. Maria non capisce la sua gravidanza; l'angelo le comunica un mistero enorme al quale dice "sì", ma rimane turbata, perplessa e piena di paura e di domande; alla nascita di Gesù medita in cuore suo ciò che sta accadendo; qui non capisce questa reazione esplosiva del figlio; più avanti farà fatica a capire i gesti di suo figlio che la lascia anche fuori di casa preferendo "chi ascolta la parola di Dio"; non capisce perché ha un figlio così diverso. La storia di Maria e di Giuseppe è costellata dal non capire, dal non comprendere, dal mistero. Eppure tutto aveva un senso, c'era un filo rosso, una linea continua. Allora io mi chiedo, perché dovrei capire tutto io? Mi chiedo perché devo trovare sempre tutte le risposte e le spiegazioni? Mi chiedo perché devo avere tutto sotto controllo, razionalizzare tutto, avere chiaro tutto il progetto fin dall'inizio e in tutti i suoi particolari? E se mi lasciassi semplicemente portare, condurre? E se mi fidessi? E se smettessi di voler capire tutto e mi fidessi di Dio? E quando non comprendo accetterò di non comprendere, di non capire. Mi fido di Dio: so che Lui sa, so che c'è un filo rosso, un senso, un destino. Gli dico di "sì", mi fido, mi lascio portare e mi tengo con serenità i miei dubbi. Non devo capire tutto nella vita: devo solo vivere. Chissà cos'avrà pensato Gesù nel vedere che i suoi genitori non capivano! "Ma non lo sapevano - avrà detto tra sé - già dall'annuncio dell'angelo? Non lo sapevano che io sono figlio di Dio?". Già, non lo sappiamo anche noi che nostro figlio non è nostro? Certo che lo sappiamo, ma lo sappiamo con la mente, perché è scritto nei libri. Ma il cuore va altrove. Anche Gesù ha dovuto scontrarsi con il limite umano dei suoi genitori che non capivano, che lo hanno rimproverato, che gli hanno fatto pesare questa scelta. Ai figli dico: "Siete voi che dovete uscire di casa: questo è il vostro compito. Se i genitori vi aiutano e vi facilitano non trattenendovi, ma nell'essere porte dove si può uscire quando ci si sente forti e rientrare quando ci si sente deboli, tanto meglio. Ma in ogni caso la vita è vostra. I vostri genitori, come tutti, hanno dei limiti: magari vi ostacolano o non vi aiutano. Ma è un vostro compito uscire e "occuparvi delle cose di Dio", fare la vostra strada e trovare la vostra chiamata". Anche Gesù aveva dei genitori limitati e che facevano fatica a capire. Nessun genitore è perfetto: non pretendete genitori perfetti, ma che vi amino. Ogni genitore fa dei danni su suo figlio: è normale! Ogni educatore ferisce l'allievo: è normale! Voler pretendere dei genitori perfetti, degli educatori perfetti, dei preti perfetti è un'illusione onnipotente della mente. Tutto è limitato. "Hanno fatto quello che hanno potuto; ti hanno dato l'amore che potevano darti e come potevano darlo; ce l'hanno messa tutta; ti hanno dato ciò che loro avevano, e ciò che non avevano come risorsa non te l'hanno potuta dare. Riconciliati con loro e fa' la tua strada". Il miracolo è che se si accetterà questa perdita lo si ritroverà. "Si conserva solo ciò che si sacrifica", diceva un uomo. "Tornò con loro a Nazareth", dice il vangelo. Adesso l'amore è più libero: tutti sanno che nessuno appartiene all'altro ma che tutti appartengono a Dio, che tutti hanno il dovere di fare la propria strada verso Dio. Che l'esigenza prima e unica è fare la volontà di Dio e di nessun altro: né quella del padre o della madre; degli amici o del gruppo. Gesù, poi, rimane con i genitori. Ma nulla sarà più lo stesso. Giuseppe e Maria non comprendono (mi sembra di vedere tutti i genitori che non comprendono i figli, i loro sentimenti, le loro scelte, le loro decisioni, i loro comportamenti!). E' molto profondo tutto ciò: Gesù ha individuato cosa deve essere, cosa deve fare. Ma non ha ancora le forze per realizzarlo. Verrà il suo tempo. Giuseppe e Maria hanno capito che quel loro figlio non è loro, che non hanno decisione su di lui, che lo devono lasciare andare. Ma per ora gli sono vicini, lo tengono con sé consapevoli che un giorno lui se ne andrà. Da una parte bisogna stargli vicino, rassicurarlo, dargli amore; dall'altra bisogna piano piano lasciarlo andare, che ci provi, che si provi, con la consapevolezza che lì potrà sempre tornare, ma solo se lo vorrà. Pensate se Giuseppe e Maria non avessero lasciato andare il proprio figlio. Pensate se non lo avessero preso per com'era! Pensate se lo avessero fermato nel suo cammino, se gli avessero proibito di fare ciò che ha fatto, di esporsi, di essere diverso. Pensate se lo avessero fatto sentire in colpa o accusato e così facendolo avessero bloccato il loro figlio Gesù. Pensate se se ne fossero infischiati del fatto che Lui era Figlio di Dio, che aveva una missione, una chiamata, noi oggi non saremmo qui. Forse non ci sarebbe il cristianesimo. Non rabbrividite di fronte a tutto questo? Non vi fa tremare? E adesso pensate ai vostri figli... o a chi amate... Pensiero della Settimana E' un errore credere che ciò che non si capisce sia necessariamente falso. (Gandhi) |