Omelia (14-02-2010) |
Il pane della domenica |
Maledetto l'uomo che confida nell'uomo Beati i poveri. Guai a voi, ricchi Molto facilmente pensiamo al nostro peccato nei termini di una trasgressione di una legge o di un precetto fissati dalla Chiesa, e quindi come il fare o il non fare una determinata azione. Questo è un modo di ragionare non solo riduttivo, ma in parte anche falso, perché tralascia la radice teologica del peccato, la sua vera causa, che, quando non è colta, ci conduce ad una vita "quasi" cristiana in cui non raramente ci troviamo a confessare sempre gli "stessi" peccati. Il peccato, nella sua dimensione costitutiva, è il diabolico scambio tra Dio e l'uomo, lo stimare come "Dio" ciò che invece è puramente "umano", l'assumere pertanto come criterio di giudizio e di valutazione per le scelte concrete della nostra esistenza "qualcosa di umano" ed assolutizzarlo, cioè donandogli il posto di Dio. Questa è la radice del peccato ed è per questo che, quando ciò accade, non andiamo mai letteralmente a segno nelle nostre scelte, perché appunto abbiamo sbagliato mira. La pagina odierna del vangelo, quella delle Beatitudini, vuole pertanto offrirci la giusta prospettiva con la quale misurarci e misurare le nostre azioni. 1. Il testo lucano delle Beatitudini si compone di quattro beatitudini e di quattro "guai", che presentano una precisa struttura tripartita, cui è bene prestare attenzione per evitare interpretazioni grossolane del testo. Nell'analizzarla ci lasciamo aiutare da un noto esperto di sacra scrittura: "Beati, felici, fortunati voi adesso / se oggi siete poveri / perché il Regno di Dio è vostro fin d'ora. Beati, felici, voi, adesso / se ora avete fame / perché domani Dio stesso vi sazierà (sarete saziati è un passivo teologico). Beati, felici voi, adesso / se ora piangete /perché domani riderete. Beati, fortunati voi,... rallegratevi... ed esultate /quando gli uomini vi odieranno... a causa del Figlio dell'uomo / perché allora la vostra ricompensa sarà grande nei cieli. Guai a voi adesso / se oggi siete ricchi /perché avete fin d'ora la vostra consolazione. Guai a voi ora / se oggi siete sazi /perché domani avrete fame. Guai a voi ora / se adesso ridete / perché domani / sarete afflitti e piangerete. Guai a voi /quando tutti diranno bene di voi /perché questo fu pure in passato il salario dei falsi profeti" (F. Rossi de Gasperis). Alla luce di quanto detto, risulta maggiormente comprensibile perché Gesù proclami beati i poveri, gli affamati, gli afflitti, i perseguitati e, viceversa, maledetti coloro che sono ricchi, sazi, ridenti e acclamati dagli uomini. La ragione della beatitudine, infatti, non sta evidentemente nello stato in sé, in cui costoro si trovano, ma nell'azione di Dio nella storia, evocata sia con l'immagine del Regno che con l'uso dei verbi al passivo che hanno proprio l'Altissimo come soggetto. La beatitudine consiste in verità nel fatto che Dio interviene nella storia, per ripristinare la giustizia e per farsi prossimo ai più deboli. Da qui emerge anche il significato da dare ai "guai", da riferirsi proprio a coloro che non si lasciano "sollecitare", "provocare", dall'azione di Dio nell'oggi della storia, ma si ripiegano su se stessi: a coloro che non si aprono insomma alla dimensione del Regno. I quattro "guai" di s. Luca in modo efficiente e forte ci aiutano poi a dare un volto e un giudizio - i guai, infatti, non sono un augurio o una maledizione diretta a, ma frutto di una constatazione - a quell'uomo "maledetto" di cui ci parla Geremia nella 1ª lettura, il quale, confidando nell'umano, "pone nella carne il suo sostegno, e il cui cuore si allontana dal Signore" (Ger 17, 5). In senso contrario, vengono subito in mente le parole del Salmo 1, che la liturgia odierna puntualmente pone come Salmo responsoriale: "Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia sulla via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte". 2. Attraverso una straordinaria tecnica di scrittura, la pagina del vangelo odierno ci invita quindi a riflettere sul senso profondo dell'aver fede, che consiste in un'amorevole confidenza nel Signore. Certo, emerge anche un tratto drammatico della vita cristiana. Credere significa sempre rompere l'incantesimo che su di noi ha ciò che è umano: la sua bellezza, la sua afferrabilità, la sua presenza ed immediatezza, la sua fruibilità qui e subito. Non è mai facile riconoscere i propri idoli, ancora meno è decidersi ad abbatterli per aprire il cuore al Dio vivo e vero. La situazione ci appare oggi ancora di più compromessa a causa di un clima culturale in cui la non evidenza di Dio sembra l'unica evidenza e in cui sono molti coloro che si autodichiarano capaci di dare alla nostra vita quella svolta definitiva, quello slancio risolutore, quella pienezza tanto agognata e tanto mancata. Sono in tanti, insomma, che si propongono come nuove "divinità": da Madonna (la cantante) alle "star" dello sport, del cinema, della letteratura, della psicologia del profondo... Qui può sorgere il nostro peccato: l'idolatria, lo scambiare un idolo con Dio. Sembrano parole antiche - idolatria e idoli - ma descrivono alcuni atteggiamenti contemporanei meglio di molte analisi sociologiche. 3. Per noi cristiani non è così. Siamo chiamati alla felicità, ad essere beati, ogni volta e in quella misura in cui ci collochiamo dalla parte di Dio. Siamo felici e beati se sappiamo stare con Dio che appunto sta dalla parte dei poveri, degli afflitti e degli affamati; e soprattutto siamo inviati a esultare di gioia ogni volta e in quella misura in cui, pur riconoscendo la bellezza, la grandezza e la ricchezza di ciò che è umano, non lo confondiamo con Dio. Per questo la liturgia, oggi, ci invita a interrogare il nostro cuore. Se è chiaro, infine, cosa significa essere cristiano, e cioè aver incontrato e accolto nel cuore Cristo, che ha parole di vita e di verità, dovrebbe risultare altrettanto chiaro che essere "non cristiano" non significa non essere nulla o semplicemente essere se stessi. Essere "non cristiano" significa esporsi pericolosamente al rischio dell'idolatria. La scelta, dunque, non è tra essere cristiani o non cristiani, ma più precisamente tra essere cristiani ed essere idolatri. Commento di don Armando Matteo tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Ave, Roma 2009 |