Omelia (01-11-2001)
mons. Antonio Riboldi
Il momento più importante

Mi ha veramente stupito una mamma che un giorno, al termine di un discorso, mi fece una domanda che conteneva quasi un rimprovero e non lo era. Mi invitava a quella riflessione che dovrebbe segnare i passi della nostra esistenza, corta o lunga che sia. "Perché voi sacerdoti, che siete o dovreste essere i maestri della vera vita, da tanto tempo non ci parlate della morte? Non vi pare che vi fermiate troppe su quanto passa a volte come una brezza ed a volte come una tempesta, ma passa, e non ci ricordate del momento decisivo, quello della morte? E' il momento del fare i conti di un dono avuto e speso: un conto che ci farà Colui che ci ha dato il dono, Dio".
Ed è vero. A volte viviamo non ponendoci neppure il problema del perché ci è stata data la vita e soprattutto del come farne uso. A volte sembra che viviamo alla giornata. Il domani è un altro giorno che rischia di passare inosservato. Ed è come se giorni fossero un "quotidiano" che si legge in fretta e si getta tra la carta straccia nulla rimanendo di quanto è stato scritto.
Un tempo era come un ritornello catechistico quello che le nostre mamme ci mettevano sulla bocca fino a farlo diventare carne della nostra carne, ossia i "quattro novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso".
Oggi forse non sappiamo più dare il vero significato al dono della vita o gliene diamo uno che è nettamente errato. Così il grande dono si ritorce contro di noi e contro Dio che ce l'ha dato.
Non ci si ripete mai abbastanza dicendo che LA NOSTRA VITA E' da una eternità PRESENTE NEL CUORE DEL PADRE, ossia Dio. Nessuno è qui per caso: come per una giornata di festa o di lutto. Se Dio, il Padre, ci ha creato, dovrebbe essere chiaro a me, a tutti che ci ha destinati ad essere come Lui., in festa nella sua casa, il Cielo. "Carissimi, ci ammonisce l'apostolo Paolo, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli. È" (Gv. 1 Lettera, 3,1-3)
Viene da domandarsi perché allora ci ha messi su quesa terra, dove sembra che troppe volte venga come cancellato la gioia che ci fece conoscere Dio quando a Natale ci donò Suo Figlio perché stesse con noi e sentimmo allora il gioioso canto degli angeli che sembravano aprirci uno spiraglio sul Cielo, la nostra vera casa: sembra affermarsi il buio del venerdì santo quando Gesù morì in croce. La risposta è molto semplice. Questo dono della vita - continuo a chiamarlo dono - non è stato dato perché noi ne facessimo un uso distorto, ma come una prova che consiste nel costruire o raccontare giorno per giorno, azione per azione che vivere per noi è amare Dio con tutto noi stessi - ossia mettere Dio al di sopra di ogni altra creatura e amare il nostro fratello. Come un continuo "ti amo" ed è la santità che ci rende degni della resurrezione, ossia del tornare alla casa del Padre.
Viviamo sì, ma cercando una buona salute, avere tanti soldi e facendo di questi il nostro grande amore, cercando prestigio. Forse non ci rendiamo conto neppure che la ricchezza, la bellezza, la stessa salute, sono un pericoloso effimero che non costruiscono paradiso, ma troppe volte anzi costruiscono l'inferno per tanti. Questi beni, sono beni per l'eternità quando non sono idoli che ti rubano l'anima, ma sono invece beni per lodare Dio e fare del bene al prossimo. Non fa mai paura la morte per chi ha sempre avuto gli occhi rivolti al Cielo, cercando appassionatamente la casa del Padre. "Le anime dei giusti - dice la Sapienza - sono nelle mani di Dio; nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace". (Sp.3,1-9)
E quanti, che sono stati compagni nella nostra vita, ora sono là, vicino a Dio, speriamo, a conoscere tutta la gioia che è vivere nella casa del Padre! Sono tanti i miei amici che non sono più con me ora, ma sono nella verità e sono quindi santi tra i santi. Da mia mamma a mio papà, ai miei amici, tanti, ma tanti amici. Andando al cimitero pare che rivivano e mi attendano. Verrà il mio giorno, il nostro giorno, in cui "passeremo" da questa terra al cielo. Come sarà quel momento il più importante della vita, che introduce nella eternità?
Quanti hanno vissuto una vita con la saggezza evangelica, ossia si sono preoccupati di interpretare questo breve o lungo soggiorno su questa terra onorando il dono della vita, che è vivere bene facendo la volontà di Dio nella continua ricerca del volto del Padre e sentendosi pellegrini in cammino verso la casa del Padre, per questi non esiste la paura, la morte altro non è che il "transito" ossia il ritorno a casa. Ed è festa. Ne ho visto tanti, donne e uomini, morire sorridendo come se in quel momento intravedessero il volto del Padre che li attende.
Purtroppo è difficile essere santi quaggiù è facile portarsi dietro tante colpe che hanno bisogno di essere espiate. Da qui la necessità di commemorare i nostri defunti con le preghiere e le elemosine come suggerisce la Bibbia.
Fa male, recandoci nei cimiteri, assistere ad un vero mercato che si limita a mostrare la bellezza delle tombe, senza mettersi in comunione con i nostri morti. Trionfa il consumismo, la voglia di apparire in tutto, anche là dove dovrebbe essere visibile la serietà, la sofferenza e il ricordo dei nostri defunti che tanto si attendono da noi.
Siano allora questi giorni, festa di tutti i santi (e chissà quanti amici e parenti appartengono alla schiera dei beati) e di commemorazione dei defunti, una occasione per guardare in faccia alla morte come il momento più importante della nostra vita, un momento irrepetibile e sintonizzare la nostra quotidianità su quel momento, vivendo non da smemorati, ma con la fede di chi deve sapere che verrà anche per noi quel giorno ed essere vigilanti, come le vergini sagge del Vangelo che attesero l'arrivo dello Sposo con le loro lampade accese per entrare a nozze con Lui. E non sentirci dire "Non vi conosco".