Omelia (17-02-2010) |
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PRIMO COMMENTO ALLE LETTURE a cura di Gigi Avanti "Non voglio fare brutta figura"... "Che figuraccia che hai fatto!"... "Voglio fare bella figura"... sono espressioni di uso corrente che rivelano una tendenza diffusissima dell'essere umano, quella di tenere di più alla propria immagine che non alla propria realtà di persona, quella di tenere di più all'apparire che all'essere, tendenza che induce poi ad una serie di rapporti umani vissuti all'insegna del formale, dell'esteriore, di facciata... tendenza che sotto sotto rivela la grande paura che ognuno ha del giudizio della gente e, paradossalmente dal lato opposto, rivela anche la bramosia o il desiderio nascosto della sua approvazione... se non del suo applauso. C'è anche un altro proverbio in qualche modo è collegato a queste espressioni ed è il seguente: "Non è tutto oro quel che luccica", proverbio che mette in guardia contro il rischio di credere che la lucentezza esteriore sia espressione di una ricca realtà interiore. C'è però chi ha ricordato che "se è vero che non è tutto oro quel che luccica, sarà anche vero che non è detto che tutto quello che non luccica non sia oro". E così il cerchio si chiude consentendo a ciascuno di scegliere da che parte stare nel duello tra verità e menzogna, tra apparenza e sostanza, tra affettività autentica e anaffettività, tra sorriso del cuore e sorriso del volto, tra fare il bene per farsi vedere e non farsi vedere a fare il bene, tra farsi vedere fare le opere buone per la causa del Regno di Dio e farsi vedere fare le opere buone (preghiera, carità, penitenza) per "dare buon esempio" (a chi?) o per ottenere approvazione e applauso...magari anche da se stessi per se stessi. Il vangelo di oggi si colloca proprio a questo punto e va al di là del livello puramente umano dei rapporti avvertendo perentoriamente che questo giochetto non attacca nel rapporto autentico con Dio. Nel rapporto con Dio occorre arrivare presto al paradossale punto d'equilibrio tra l'imperativo della testimonianza ("che vedano le vostre opere buone così da glorificare il Padre vostro che è nei cieli") e quello del nascondimento ("Il Padre vostro che vede nel segreto vi darà la ricompensa"), il punto d'equilibrio tra fare del bene per farsi vedere (vanità...) e farsi vedere fare il bene soltanto per dare testimonianza, glorificando così Dio a cui va il merito di tutto. Gioverà allora ricordare che poco attiene alla sana spiritualità il cercare goduria nelle "belle funzioni" se poi nella relazione fraterna del giorno dopo giorno "si funziona male" nell'amore, nel dialogo, nella condivisione, nel sacrificio della accettazione dei reciproci limiti. Forse il periodo di quaresima che inizia potrebbe proprio indurre questa conversione, questo cambio di marcia, questo mandare in cenere i propri comportamenti artefatti e finti e dare calore di fuoco a comportamenti affettivi autentici...nei confronti di Dio e nei confronti dei fratelli. Gioverà anche ricordare, per sostenere l'impegno di questo cambio di marcia, che "ogni incontro con Dio è preghiera, non ogni preghiera è incontro con Dio"...perché il demone della vanità è capace di insinuarsi anche in quella sottile e subdola forma di soddisfazione interiore che talvolta ci prende allorquando abbiamo recitato proprio "una bella preghiera" o "fatto una bella ora di adorazione". Come pure sarà bene ricordare, nei momenti più bui dello scoraggiamento e della desolazione spirituale, quanto diceva tra sé e sé il santo Papa Giovanni XXIII: "Dio sa che esisto...e questo mi basta". SECONDO COMMENTO ALLE LETTURE a cura di don Andrea Lonardo La fedeltà al tempo liturgico è una delle grandi obbedienze del cristiano. Non si tratta di obbedienza in un determinato momento, in una scelta particolare, ma di una continua ricerca per vivere "nella forma" di Cristo, contemplando la sua vita e trasformando la nostra. Ricominciando ogni anno. E per tutta la vita. I quaranta giorni della Quaresima pongono ogni cristiano nella scia dei propri padri. Vivere i segni della Quaresima è tornare a seguire il cammino non solo dei nostri nonni e bisnonni, ma prima ancora di Noè che restò nell'arca per quaranta giorni, di Mosè che sostò sul monte Sinai per quaranta giorni per ricevere la Legge, del popolo di Israele che vagò per quarant'anni nel deserto per non aver creduto alla promessa, di Elia che camminò per quaranta giorni per giungere al monte di Dio, di Giona che si piegò infine a predicare per quaranta giorni agli abitanti di Ninive, del Signore nostro che per quaranta giorni fu tentato dal Nemico nel deserto, dove lo Spirito lo aveva sospinto. Proprio il tempo quaresimale è stato proposto fin dall'antichità dalla sapienza della chiesa per accompagnare i catecumeni nella preparazione al battesimo. Ed è stato proposto non come una devozione personale, ma come un cammino comunitario, nel quale tutta la chiesa accompagna coloro che stanno per diventare figli di Dio, ringiovanendo se stessa. Le letture del mercoledì delle Ceneri indicano immediatamente che il cammino dei quaranta giorni è un cammino del cuore. Il Salmo prega perché possiamo avere "un cuore puro" (Sal 50,12), la prima lettura invita a lacerarsi il cuore e non le vesti (Gl 2,13), il vangelo di Gesù a custodire il segreto. È sempre difficile confessare il proprio male ed, invece, non rendere noto il bene che si è compiuto. La Quaresima invita invece proprio a questo. Mentre ci si prepara a celebrare il sacramento del perdono, dicendo le proprie colpe, si è invitati a compiere il bene senza che alcuno lo sappia, se non il Padre che vede nel segreto. È un esercizio dello spirito interrogarsi se si è capaci di compiere il bene, senza poi parlarne ad alcuno. Ricordo, in una catechesi rivolta a giovani in ricerca della vocazione, la proposta sapiente di compiere il dono di un oggetto importante che si possedeva per i poveri, senza che mai nessuno venisse a conoscenza di questo, come un'esperienza liberante e vera. Contro la tendenza a credere che i problemi più grandi sono fuori di noi, il vangelo invita, così a scorgere che il male più pericoloso è quello annidato nel nostro cuore, quello che "siede accovacciato alla nostra porta". Cessare di puntare il dito contro presunti "capri espiatori", contro quelle persone o condizioni di vita che riteniamo rendano impossibile l'essere cristiani, diviene un passaggio necessario perché il nostro cuore cominci a lavorare su se stesso prima che sugli altri. I testi biblici del Mercoledì delle Ceneri ci indicano, però, che il cuore non si converte semplicemente con un'auto-analisi. Il nostro intimo è invitato piuttosto a volgersi a Dio: «Ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2, 12). La conversione non è un tornare sui propri passi, non è un fare riferimento a se stessi, non è una inversione "ad u", ma è, ben più radicalmente, un rivolgersi al Signore, accogliendo il suo amore ed amandolo. La seduzione con cui il male cattura il cuore non viene vinta dalla nostra forza di volontà. Solo facendo spazio ad una passione più grande, all'amore di Dio e dei fratelli, il cuore si può riempire di bene. Come scriveva sant'Agostino, contro i pelagiani che credevano di poter essere cristiani solo con le proprie forze: «Questo è l'orrendo e occulto veleno del vostro errore: che pretendiate di far consistere la grazia di Cristo nel Suo esempio e non nel dono della Sua persona» (Contra Iulianum. Opus imperfectum). Proprio la presenza di Dio è capace di convertire i cuori dalla dissipazione di se stessi, come scriveva recentemente Giovanni Lindo Ferretti, passato dal punk filosovietico alla fede cattolica: «Dissipare la vita, per me, non è stata una questione di grandi idee ma un problema di quotidianità. La mattina mi alzavo tardi, bighellonavo, preparavo un concerto e, infine, mi esibivo sul palco. Una vita che pensavo fosse libera ma che, invece, era schiava di ogni moda stagionale. La malattia che dovevo affrontare e la casa da ristrutturare, che avrebbero potuto essere considerate soltanto una doppia disgrazia mi hanno obbligato a fare seriamente i conti con la vita e mi hanno aiutato a cambiare radicalmente la mia quotidianità». Il vangelo non si limita comunque a parlare del segreto del cuore, ma indica la via della preghiera, del digiuno, della carità. Viene spontaneo domandarsi: ma il cuore non basta a se stesso? No, perché l'intimo nostro ha bisogno di gesti e segni che toccano comunque la carne, anche se non vengono manifestati agli altri. I segni non sono il cuore stesso, ma sono necessari perché il cuore maturi e si converta. Si pensi solo alla psicoanalisi ed alla psicologia che insegnano che senza una verbalizzazione del nostro passato non si riesce a guarire, si pensi al valore dei gesti e delle parole in ogni relazione umana. I segni del cammino quaresimale non sono richiesti da Dio perché Lui ne abbia bisogno. Sono invece espressione della sua condiscendenza, poiché Egli sa che ciò che non passa per la carne dell'uomo, non è pienamente umano. I segni si radicano nell'evento dell'incarnazione del Figlio che ha voluto assumere la nostra natura umana, perché senza la sua carne la nostra carne non avrebbe potuto avere comunione con lui. Proprio il digiuno con cui inizia la Quaresima, facendo sentire la fame al nostro corpo, ci rammenta la fame che ogni uomo ha della presenza di Dio e della sua parola. È per questo che dobbiamo tornare ad annunciarne il valore, insieme a quello della preghiera e della carità, anche alle nuove generazioni - ricordo che mi colpì una parrocchia che distribuiva le domeniche precedenti il Mercoledì delle Ceneri ed il Venerdì santo un sacchetto con un pugno di riso (che è fra l'altro la quantità di cibo di cui si nutrono giornalmente i poveri della terra) insieme ad un breve biglietto che spiegava il senso del digiuno. |