Omelia (15-06-2003) |
don Elio Dotto |
Un Dio senza invidia Quando si preparano i bambini per la confessione, si propone anche un esame di coscienza circa l'invidia. E i bambini – che nonostante tutto sono sempre i più svegli – prendono sul serio questo suggerimento: non è infatti raro il caso in cui essi confessino di essere invidiosi. I grandi, invece, quasi mai confessano l'invidia: forse perché l'invidia appare essere un peccato di quando si è bambini; ma soprattutto perché l'invidia è un peccato che solo la semplicità dei bambini sopporta di riconoscere. Infatti tutti siamo invidiosi: e tutti però facciamo di tutto per nascondercelo, per dissimulare quell'invidia che si insinua nei nostri rapporti reciproci. Ma che cos'è – più precisamente – l'invidia? Alla lettera, invidiare significa «non sopportare la vista»: non sopportare la vista degli altri – dei beni che possiedono, dell'onore che ricevono, del potere che hanno – e dunque sentire la presenza degli altri come una minaccia per la propria vita. È quello che accadde già a Caino, al tempo degli inizi: nel libro della Genesi leggiamo che Caino aveva il volto abbattuto perché non sopportava la vista delle opere buone di suo fratello Abele; anzi, addirittura temeva che quelle opere buone oscurassero la sua vita. Caino dunque aveva il volto abbattuto, triste, irritato: e così avvenne che «mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise» (Gn 4,8). Certo la nostra invidia non arriva a tanto: essa appare molto più modesta e limitata; soprattutto si manifesta in forme molto più sottili e nascoste. E tuttavia è innegabile che anche le nostre piccole invidie nascondano la segreta intenzione di cancellare gli altri: di cancellarli almeno dalla vista e dai pensieri; di cancellarli per scongiurare quella segreta paura che essi suscitano nel nostro cuore. Appunto da una simile paura ci vuole liberare lo Spirito di Dio che nella Pasqua è stato effuso nei nostri cuori. «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura – leggiamo nella lettera ai Romani (seconda lettura di domenica: Rm 8,14-17) – ma avete ricevuto uno spirito da figli. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli siamo anche eredi: eredi di Dio». Dunque noi che nella Pasqua abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio non possiamo ricadere nella paura: non possiamo cioè rimanere schiavi delle nostre invidie reciproche, di quel sospetto vicendevole che ci complica la vita e ci rende perennemente tristi ed irritati. Tutti siamo figli di Dio: e dunque tutti siamo eredi delle sue promesse, senza la preoccupazione di meritarcele prima e meglio degli altri. Anzi, tutti siamo chiamati a scoprire le promesse di Dio insieme e attraverso gli altri: perché soltanto attraverso l'incontro grato con gli altri possiamo riconoscere quella promessa che dà un futuro alla vita. Certo, l'invidia rimane sempre in agguato, anche se abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio. Successe pure agli undici discepoli, che su quel monte della Galilea dubitavano, e da capo iniziavano a dividersi per invidia, come già avevano fatto prima della morte di Gesù (cfr il Vangelo di domenica: Mt 28,16-20). Rimasero però colpiti dalle ultime parole del Maestro: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». Rimasero colpiti, gli undici discepoli: perché si accorsero di essere davanti ad un Dio senza invidia, un Dio che – al di là di tutto – non aveva paura della compagnia degli uomini; e così videro che non c'era proprio ragione per non sopportare la vista degli altri. Sì, non c'è proprio ragione per essere invidiosi; soprattutto non c'è ragione per avere sempre paura degli altri: a meno che preferiamo vivere con il volto abbattuto ed irritato, come avvenne per Caino, al tempo degli inizi. |