Omelia (15-06-2003) |
mons. Antonio Riboldi |
La gioia di avere un padre Mi ha sempre fatto impressione visitare gli orfanotrofi, o incontrare bambini (e ce ne sono tanti, oggi, per i facili naufragi dei matrimoni) che non hanno conosciuto papà o mamma, o sono costretti ad avere "più padri" e nessun padre. Facendosi vicino a loro, dando loro un minimo di tenerezza, questi si aprono subito, si affezionano o ancora di più "si attaccano", diciamo comunemente, come a cercare di appropriarsi di un valore essenziale alla vita e che sentono fortemente mancare loro. Non avere padre o madre è sentirsi "diversi", "incompleti". Ed è una diversità o una incompletezza dentro il cuore che marca profondamente il modo di vivere e di comportarsi. "Com'è un papà?" mi chiese una volta un bambino, guardandomi fisso, come volesse cercare nel profondo degli occhi una risposta che intuiva, ma che le labbra non sapevano o non potevano dare. Mi faceva questa domanda, dopo che io avevo raccontato familiarmente a lui la mia vita di bambino vicino a mamma, papà e i miei fratelli. "Un vero paradiso era crescere tra le braccia dei genitori. Si ha come l'impressione di camminare sorretti da quattro mani forti, sicure, e che sanno la strada così bene da poter chiudere gli occhi nel camminare e vivere con loro: sai che non tradiranno mai e poi mai e sopratutto non ti lasceranno mai, perché sei la parte più importante della vita e tu, anche quando diventi meno piccino, è come ti sentissi addosso il cordone ombelicale che ti univa a mamma quando sei venuto alla vita". Mi guardava con una tristezza immensa e con uno sguardo che sembrava perdersi in sogni che non si potevano avverare per lui. A bruciapelo mi chiese: "E tu non vorresti essere mio papa?" "Con tutto il cuore" fu la mia risposta. E spuntò un sorriso che cacciò via due lacrime che stavano scendendo sul bel volto di quel bimbo che sentiva la necessità vitale di avere "un papà". Sapere di avere un papà e una mamma non è tanto e solo importante per il fatto di conoscere la propria origine anagrafica, i propri natali, ma per conoscere quella natura impressa dalle mani di Dio, nostro Padre, e quindi il perché di questa vita: soprattutto sapere che qualcuno ti ha tanto amato da darti la vita e questa vita la si ama come la propria. Quante volte ci viene da dire, di fronte ad un bambino sporco o "cattivo" o infelice: "Ma di chi sei figlio? Non ce l'hai un papà?" Così come esprimiamo il nostro stupore di fronte alla bellezza, alla intelligenza, sopratutto di fronte alla bontà di un uomo o di una donna: "Che meravigliosi genitori deve avere avuto o ha!" Come quando dissero di Gesù: "Benedetto il ventre che ti ha generato e il seno che ti ha allattato!" Oggi, solennità della SS.ma Trinità, leggiamo un brano della lettera di S. Paolo ai Romani in cui l'apostolo sembra ricordare la grandezza, la gioia di chi veramente sono gli uomini con il dono della fede: "Fratelli, tutti coloro che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito di figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!" Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E, se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se partecipiamo veramente alle sue sofferenze per partecipare alla sua gloria" (Rom. 8,14-17). Sono parole che, contemplate con il cuore a una a una, dovrebbero da sole farci gioire, di quella gioia che può solo venire dal sapersi amati immensamente, come solo può amarci Dio: un amore di Padre che è felicità immensa ora e sempre per chi ha sete di vero amore. Non sono mezze parole, come spesso escono dalle nostre bocche; sono il Cuore di Dio che si rivela a creature, che Lui tratta ed ama come figli, chiamandoli a condividere tutto ciò che è ed ha. Troppo grande verità per affidarla alla parola. L'amore vuole essere contemplato e vissuto. E' un poco come quando io parlo di papà o mamma. Tutti si accorgono che descrivendo un rapporto di intimità, è come dipingessi di colori il cielo. E chi ascolta è sempre portato a voler entrare in quel mondo, che purtroppo le vicende dolorose della vita chiudono nelle celle dei sogni! Ho visto persone piangere, qualche volta, quando, volendo portare qualche fatto della mia vita da bambino con papà e mamma, si sentivano come partecipi di una gioia che per un attimo si faceva propria. Dovrebbe essere così ogni volta che noi parliamo di Dio, che non è un "essere" senza forma, freddo, distante, sconosciuto, ma è "mio papà". Ogni volta che Gesù nel Vangelo ne parla o Lo prega, è come spalancasse le porte del Cielo per dirci: "Guarda come è bello tuo Padre! Guarda di chi sei Figlio! Guarda quanto sei amato!" Così infatti parlava Mosè al suo popolo: "Interroga pure i tempi antichi che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l'uomo sulla terra e da una estremità dei cieli all'altra, vi è mai una cosa grande come questa? E si udì mai una cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l'hai udita tu e che rimanesse viva?...Sappi dunque e conserva bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e non ve n'è un altro. Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sii felice tu e i tuoi figli dopo di te" (Dt. 4,32-34). E l'amore del Padre si è manifestato nel dono del Figlio, che per noi ha dato la vita sulla croce e da allora si fa vicino a noi, come volesse guidare e sostenere i nostri passi. Si fa presente con la presenza dello Spirito, che è il Consolatore, "il respiro di Dio". Siamo davvero avvolti nell'amore della Trinità...e non ce ne accorgiamo. Ci fu un tempo, e per tanti lo è ancora, in cui ricordavamo queste verità sublimi con un semplice gesto, quello della Croce: "Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" e, affidandoci a queste verità tracciavamo il segno della croce che ricordava da vicino quanto il Padre ci ama nel Figlio. E ancora oggi il Signore dalla croce raccoglie nei suoi occhi le nostre infinite lacrime che, in Lui e con Lui, acquistano il sapore dell'amore. Le braccia aperte di Dio, costrette dolcemente dai chiodi a non chiudersi mai, mettono una gran voglia di abbandonarvisi, come per affondare la nostra testa su quelle spalle che pare si offrano per accoglierci. E quel cuore squarciato ha tutta l'aria della porta di casa di Dio, che è il Paradiso. Con amarezza notiamo che troppi camminano senza uno sguardo a quella croce con il senso di chi ha deciso, non si sa perché, di sfrattare dalla propria vita l'ineffabile e necessario mistero dell'amore del PAdre, del Figlio e dello Spirito Santo: e così ci sentiamo come sfrattati dalla sola casa della pace, della pietà, della misericordia e della gioia, che è la casa del Padre. Ci sentiamo sul lastrico della vita a mendicare gioie che non ci sono, con nelle mani, al posto della croce, voglia di gloria e superbia, tentazioni di evasione con la droga, svendita della dignità della vita fino ad arrivare alla violenza. Con l'amarezza di non sentire più nella vita lo sguardo ineffabile del Padre che continua a ripeterci, con la voce del Figlio dalla croce: "Sono qui perché il Padre ti ama tanto da darti come segno del suo amore questo mio stare qui per te: un amore che condivido e diventa fuoco con lo Spirito. E non è forse quello che cerchi, il Padre? Nella tua debolezza o ignoranza, credi di amare o cerchi l'amore dalle piccole creature che non hanno voce e amore. Io invece ti offro vita e gioia senza fine. Lasciati amare" Vorrei che tutti noi oggi rivolgessimo al Padre la preghiera che mi rivolse il piccolo orfano: "Vorresti essere mio papà?" Antonio Riboldi - Vescovo - Internet: www.vescovoriboldi.it E-mail: riboldi@tin.it |