Omelia (14-03-2010)
Agenzia SIR


Se quello di Luca è chiamato il "Vangelo della misericordia" questo di oggi ne è il manifesto insuperabile, capace di ritrarre l'indicibile vicenda eterna dell'amore del padre per il figlio. Un amore capace di far tornare indietro il figlio dalla morte, di scambiare la pena con la festa di nozze per averlo ritrovato dopo averlo perduto. Questa è la domenica laetare, della letizia, incastonata al centro della Quaresima, tutt'altra cosa rispetto ai nostri carnevali.

Il peccato scortica e deforma l'immagine di Dio nell'uomo. Funziona così. Pensiamo a un Dio geloso e rivale invincibile, impedimento alla nostra libertà e realizzazione. E ci ritroviamo lontani, in fuga dinanzi a Lui, certi di poter e dover fare da soli. Gesù reagisce e mette a tacere tutti quelli che non sopportano la misericordia del Padre perché non sanno che misericordia è il nome di Dio. La parabola di Luca ha diversi dettagli, che convergono sempre al centro indicato dalle parole del Padre: "Bisognava far festa". I peccatori l'hanno capito e fanno festa a Gesù.

Più che dei due figli - lo scialacquatore e il presuntuoso- questa è la parabola del Padre che non riceve altra gioia più grande che quella di essere capito come padre e che, infine, vede i fratelli riconoscersi come tali. È chiaro l'invito a fare anche noi da padre. È commovente poter pensare la conversione come il rovesciamento dell'immagine di Dio, riscoprire il suo volto di tenerezza, rialzarsi dalla delusione del proprio peccato o dall'arroganza del sentirsi a posto, per gioire semplicemente di essere figli del Padre. Basta da sola questa pagina così piena di buone notizie a far cedere dinanzi al dono di grazia che è la fede. Fronteggiarla o tradirla è alla radice di ogni possibile peccato riconducibile ai due tipi di figli.

"Un uomo aveva due figli": in realtà non ne aveva nessuno vero. Uno andato via, l'altro estraneo al suo sentimento. Uno diventa schiavo, l'altro si sente garzone. Entrambi non conoscono il padre, ne hanno una cattiva opinione. Il minore prova a sostituire il padre con il proprio piacere, ma alla fine sarà travolto dall'abbraccio del padre. Il maggiore è in collera e si ritiene addirittura migliore del padre grazie al dovere compiuto. Nessuno dei due conosce il padre, per questo non si riconoscono fratelli. E solo questo dovrebbero fare. Tutta la strada, in fondo, l'ha già fatta il padre, uscito incontro al figlio perduto e, ancora lui, uscito a convincere (a consolare!) quello presuntuoso. Il passaggio alla grazia avviene non quando ci sentiamo bravi, ma quando lo chiamiamo Padre nostro.

La misericordia è il nome di Dio e "Padre" è il suo volto perché lui ci vede e si commuove, come il buon samaritano. Al Padre, quando vede il male del figlio, gli si sconvolgono le viscere, il suo è un amore uterino. Padre e madre, capace solo di abbracciare e baciare ogni figlio. Come nella parabola, il Padre ha fretta, è stanco di avere dei servi invece che dei figli. Fretta di far festa, di porgere l'anello e di rivestire il figlio. Per questo banchetto occorre il vitello cresciuto a grano. È la festa dell'Eucaristia, il pane sfornato a Pasqua.

È la domenica della gioia. Non chiudiamoci nella tristezza perché ci si riconosce nel peccato del minore o in quello del maggiore. Guardiamo nel cuore del Padre. Ci aiutano le parole del santo curato d'Ars: "È più facile salvarsi che perdersi, tanto è grande la misericordia di Dio. Brama più il buon Dio di perdonare un peccatore pentito che non una madre di strappare il suo bambino dal fuoco in cui è caduto".

Commento a cura di Don Angelo Sceppacerca