Omelia (14-03-2010) |
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COMMENTO ALLE LETTURE a cura di don Gianni Caliandro * Quando finisce la manna? Quando Israele finalmente, dopo il suo lungo viaggio nel deserto accompagnato dalla premura di Dio, entra nella terra che gli è stata promessa, entra nella "sua" terra. Lì, in quel momento, nello stesso istante in cui i suoi piedi calpestano Canaan, la terra che ormai è sua, la manna scompare. Scompare il dono è stato fatto ad Israele senza una sua partecipazione, un pane che egli non ha contribuito a lavorare, frutto di un grano che egli non ha piantato, di una farina che non ha macinato, di una pasta nella quale non è stato lui ad inserire il lievito. La manna finisce quando Israele entra in una nuova fase della sua vita, diventa, per così dire, adulto, e il dono di Dio è ormai la sua stessa responsabilità, capace di procacciarsi da solo il pane. Certo, anche nel deserto il dono di Dio era diventato cammino responsabile, e i passi in quel lungo itinerario aveva dovuto metterli Israele. Anche allora c'era uno spazio per la libera iniziativa del popolo, e l'amore di Dio per lui aveva allestito uno spazio davanti ai suoi piedi, uno spazio da riempire autonomamente. Ma in quella "infanzia" del popolo, Dio era intervenuto con tanti doni, aveva fatto uscire dalle sue mani pane e acqua per nutrire la mancanza di fede, aveva soffiato sul popolo in cammino una nube per testimoniare la sua premura, al fine di sostenerne la direzione e l'orientamento. Lo aveva condotto per mano. Ad un certo punto, però, basta! Basta perché un padre desidera sempre che il proprio figlio cresca, e allora fa un passo indietro e gli permette di procacciarsi il pane da solo. Desidera che il proprio figlio impari a vivere nell'autonomia e smette di risolvergli tutti i problemi, a costo di vederlo sbagliare e cadere. Ecco, la manna finisce, nella nostra vita, quando Dio, che ci ama, ci lascia andare per la nostra strada, ad osare la nostra individualità, a cercare la figura della nostra personalità, a rischio di percorrere strade che ci portano lontano da lui. * Il padre di cui ci parla la parabola evangelica, come ogni buon padre, non trattiene il figlio, lo lascia andare. Corre il rischio di essere dimenticato per sempre, pur di non interrompere l'avventura della libertà di suo figlio. Come ogni buon maestro, arriva il momento in cui egli si fa invisibile, permette che si crei una distanza tra sé e il proprio discepolo. Senza fare i conti con la propria libertà e la propria autonomia, nessun figlio ama davvero chi lo ha generato e nutrito, sostenuto fino a quando nella vita non si impara a cavarsela da soli. Ma questo vale anche nel nostro rapporto con Dio. Non si ama Dio fino a quando non si sperimenta che anche nei suoi riguardi, persino nei suoi riguardi, noi siamo liberi. Liberi di andarcene, liberi di disobbedirgli, liberi di ignorarlo! Sperimentarsi senza questa autonomia, forse ci fa rimanere vicini a Dio, ma difficilmente vuol dire amarlo, spesso significa solo rimanerne schiavi. "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: "Abbà! Padre!" (Rm 8,15). Non possiamo costruire la nostra fede in Dio sulla paura di lui, né sul nostro senso del dovere. L'unico spazio nel quale fiorisce la vera fede, intesa come fiducia in Dio, è lo spazio dell'autonomia e della libertà personale. * E dunque Dio ci lascia da soli? Pur di non mancare di rispetto alla nostra libertà diventa un Dio distante, freddo? Dalle letture di oggi possiamo provare a trarre una risposta a questa domanda. Dal vangelo, possiamo dire che ciò che egli fa è at-tendere, tendere continuamente verso di noi, rimanere sulla soglia della sua vita divina a scrutare l'orizzonte nella speranza di vederci arrivare, prima o poi, di vedere che mettiamo i nostri piedi nella direzione della sua casa. Un Dio che ci at-tende, che tende verso di noi, non è un Dio che non fa nulla, un Dio freddo e distante, ma un Dio rispettoso che si muove verso di noi e si rende presente, ma con delicatezza, senza by-passare la nostra scelta di dare alla nostra vita la forma che vogliamo. La sua at-tesa è un'at-tenzione, una tensione, egli è tutto sbilanciato in avanti proteso verso la speranza di un incontro libero con ciascuno di noi. * Fin dove giunge questa sua attesa, verso dove si pro-tende il nostro Dio, il Dio di cui oggi ci parlano le Scritture? Ci aiuta a rispondere la seconda lettura, nel brano della lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: Paolo arriva a farci contemplare fin dove Dio si pro-tende, pur di farsi vicino a noi senza soffocare la nostra libertà: "Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe" e ancora: "Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio". Ecco l'abisso nel quale Dio si sporge pur di continuare ad at-tenderci, l'abisso del peccato, della non-vita. Contempleremo questo mistero il venerdì della grande Settimana Santa, tra qualche giorno, ma in questa domenica già la Scrittura ci fa intravedere la follia di un amore che non vuole più fermarsi, che sa trovare una strada per venirci incontro e contemporaneamente per lasciarci liberi. Dio ci volge verso di noi non imputando a noi i nostri errori, i nostri rifiuti, e anzi donandoci suo Figlio, che per amore nostro diventa lui un "peccato". Sì, come il padre della parabola che per amore era diventato lui solitudine, quando il figlio aveva scelto di camminare da solo. Era rimasto lui solo a piangere, quando il figlio stava pagando con le lacrime le sue scelte. Era rimasto lui affamato dall'assenza dell'amato, quando questi aveva percorso una via di povertà e di errore, fino a rimanere nella fame. * Di fronte all'annuncio di un Dio così, accogliamo in questa domenica di quaresima l'esortazione paolina: "Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!". |