Omelia (28-03-2010) |
Suor Giuseppina Pisano o.p. |
Dalle sue piaghe siamo stati guariti "Mentre egli avanzava stendevano i loro mantelli sulla strada...". Così leggiamo nel passo del Vangelo di Luca che introduce la prima parte della liturgia eucaristica di questa domenica in cui si ricorda l'ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, continua il testo, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce, per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore...». Passeranno solo pochi giorni e quel "re" sarà condannato a morire su una croce sulla quale verrà scritto:"Gesù Nazareno, il Re dei Giudei". Basteranno pochi giorni e quella folla acclamante, e che da Gesù era stata spesso beneficata, griderà il suo tremendo "Crocifiggilo!". Un grido ripetuto con forza, un grido che non ammise repliche, neppure quando il governatore Pilato disse di non aver trovalo in lui nessun motivo di condanna. Un grido che non si smorzò neppure quando, dopo aver punito Gesù con la flagellazione, lo presentò ancora alla folla nella speranza di liberarlo; ma quella moltitudine di uomini, ormai presi nella spirale della violenza, gridò ancora una volta:"Crocifiggilo!". Il Figlio di Dio si avvia, così, al Calvario, dove si compirà il suo sacrificio; "Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne - scrive l'Evangelista - donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui". Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli». E' facile, infatti, commuoversi al ricordo della passione di Cristo, ma questa compassione è sterile se non riconduce alla causa di quel dolore disumano, inflitto all'unico Innocente della Storia; e la causa, lo sappiamo bene, è il nostro peccato. La scorsa domenica, rileggendo l'episodio del Vangelo che narrava dell'adultera condotta davanti a Gesù, abbiamo sentito da Lui quelle parole consolanti: «Donna dove sono i tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata? Neanche io ti condanno; va' e, d'ora in poi, non peccare più». Erano parole di perdono, ma quel perdono aveva un prezzo: la morte del Figlio di Dio che ha preso su di sé il peso del nostro peccato, peccato che, altrimenti, avremmo dovuto continuare a portare su di noi, e noi sappiamo bene che da quel peso non ci saremmo mai rialzati. Noi sappiamo che, da soli, non ci saremmo mai convertiti a Dio se Lui, per primo, nella persona del Figlio, non fosse venuto a cercarci, a chiamarci, ad aprirci gli occhi e il cuore. Senza di lui, senza Cristo, saremmo morti, privi di speranza, nei nostri peccati; Egli è, dunque, dono di Dio, il segno più alto dell'Amore che perdona. "Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio - leggiamo nel lungo racconto della Passione - vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»". "Perdona!". Gesù, crocifisso, chiede il perdono del Padre per i crocifissori. "Questo perdono giunge prima della crocifissione e prima degli insulti che alcuni dei presenti rivolgono al Signore, e prima della sua morte. Il perdono viene sempre prima di tutto. Forse non potremmo sopportare di ascoltare il racconto della passione di Cristo se non iniziassimo con il perdono. Prima ancora che pecchiamo siamo già perdonati. Non dobbiamo guadagnarci il perdono e non dobbiamo nemmeno rammaricarci: il perdono è là che ci attende". (T. Radcliffe - Le sette parole di Gesù in croce) Ma ciò non significa che Dio avvalli ogni nostro comportamento, e neppure che le nostre colpe perdano gravità. Il fatto che siamo perdonati, ancor prima di cadere, non banalizza certo la malvagità, e neppure le fragilità dell'agire umano. Il fatto che siamo perdonati, ancor prima di peccare, significa soltanto che l'amore di Dio è più grande del nostro peccato; significa che, in vista del pentimento, Egli non tiene conto della colpa; significa che il Padre è un Dio paziente nell'attesa. Significa, infine, ed è la verità più consolante, che, tra noi peccatori e Dio, c'è una Croce, sulla quale muore il Figlio, il Redentore, chiedendo perdono per ogni uomo peccatore. Tuttavia sia il perdono del Padre che la Croce di Cristo attendono dall'uomo una risposta. "Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme" scrive l'apostolo Pietro. "Egli non commise peccato, ma portò i nostri peccati sul suo corpo, sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia, memori che dalle sue piaghe siamo stati guariti" (1Pt 2,21-24). La nostra risposta all'amore del Padre, all'amore redentivo del Cristo è, dunque, l'impegno a vivere in obbedienza alla legge di Dio, e sull'esempio del Figlio Gesù. La nostra risposta all'Amore che perdona è una vita animata dall'amore; un'esistenza che si sforza di amare, di perdonare, di soccorrere. La nostra risposta è in un'esistenza che, ascoltando il tragico silenzio del Cristo morto in croce, si impegna a non crocifiggere più nessuno, in un mondo che è ancora segnato da migliaia e migliaia di croci. |