Omelia (28-03-2010) |
padre Gian Franco Scarpitta |
L'amore che tutto vince A Gerusalemme probabilmente Pietro e altri apostoli arrivano in preda alla trepidazione, poiché sanno che il loro Signore vi resterà cadavere. La visione allusiva del monte Tabor non può estinguere nell'animo di Pietro, Giacomo e Giovanni il senso di angoscia e di paura per Gesù, che seppure li abbia tranquillizzati intorno al senso reale della sua severa condanna ha comunque predetto loro che a Gerusalemme sarà crocifisso, insomma che morirà ucciso di un supplizio fra i peggiori che si possano infliggere. Mentre però li vediamo incamminarsi verso la città di Giuda, domandiamoci anche noi: il significato reale di questo ingresso insolito a Gerusalemme è chiaro alla nostra generazione? Siamo convinti del perché Gesù, pur sapendo bene il suo destino, fa ingresso in questa città senza evitarne in alcun modo le vie di accesso principali? Intendiamo dire: abbiamo assimilato nel corso di tanti anni di cristianesimo la gloria e la passione di Gesù, che restano sempre inequivocabilmente associate, e soprattutto le abbiamo fatte nostre? E' difficile rispondere, poiché il mistero della passione del Signore si radica in noi in modo vario e multiforme, secondo la sensibilità personale di ciascuno alla risposta alla chiamata divina alla conversione. L'itinerario di orientamento spirituale verso il Signore, che abbiamo effettuato in queste settimane che ci separavano da oggi, dovrebbero averci condotto alla comprensione di questo mistero dell'approssimarsi libero e gratuito di Gesù verso la croce, al punto che non sarebbe neppure necessario commentarlo perché basterebbe solo viverlo. Ma guardiamo Gesù più da vicino, mentre entra nella capitale del Regno di Giuda. Viene osannato dalla folla che gli fa ressa tutt'intorno, gettando al suo passo mantelli, ostentando e lanciandogli addosso palme e rami frondosi, come si conviene a tutti i personaggi di gran rispetto nella Bibbia. Il suo ingresso è trionfale, paragonabile a quello di un generale dell'antica Roma dopo la vittoria di un conflitto importante o il conseguimento di un successo strategico militare: Gesù viene esaltato come il Signore Messia, così come era stato accreditato da Dio Padre per mezzo di prodigi, segni e opere di misericordia che attestano l'amore invitto di Dio (At 2, 22). Di lui si riconosce la grandezza del Signore, in lui si esalta l'amore infinito di Dio Padre che instaura il Regno di Dio realizzando le antiche promesse e la sua venuta non può essere che interpretata in termini di gloria ed esultanza. Ma come dicevamo all'inizio, alla gloria subentra l'angoscia, l'ansia e la paura. Infatti, lo stesso Signore glorioso, nel quale si conosce inequivocabile l'amore del Padre, è destinato alla croce. Gesù lo sa benissimo, lo aveva previsto e lo palesa nell'emblematica cavalcatura sulla quale procede allusiva di estrema umiltà, così come la descrive Zaccaria: "Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina. " (Zc 9, 9). Gerusalemme è il luogo in cui l'esultanza sta per trasformarsi nel dramma di una solitudine straziante che si concluderà con la morte di Dio, reietto e abbandonato a se stesso sul patibolo. Ecco allora il vero senso di questa festa liturgica che ci vede stretti fra tantissima gente, come mai nel corso dell'intero anno liturgico, ad ostentare una decorata palma appena acquistata nella bancarella accanto alla chiesa: l'esultanza per un Dio che riconosciamo come il Signore indiscusso e incontrastato della nostra vita, che partecipa delle nostre angosce e dei nostri problemi assumendoli fino in fondo e che si immedesima nelle precarietà apportate dal nostro peccato. Ma allo stesso tempo anche il dolore di fronte a un Dio che sceglie di smentire se stesso donando le proprie membra al patibolo infame sempre per amore dell'umanità. Avremo tutto il tempo nei giorni che seguiranno di mettere a fuoco ciascuno degli eventi che interesseranno il Signore che patisce per i nostri peccati paragonandosi al Servo Sofferente di Yavèh di cui Isaia 52 - 53; potremo associarci anche noi alla sua passione e alla disperazione di chi lo sta accompagnando nel martirio e configurarci a lui mentre di volta in volta enumeriamo i nostri limiti e le nostre ridicole mancanze morali, mentre lui spende la sua gloria divina sulla croce. La croce in ogni caso è il consolidamento definitivo dell'amore del Padre, il suo avallo definitivo, la prova certa e indubbia che noi di esso possiamo avere e che la gioia dell'ingresso trionfale si trasformi in ansia, paura e trepidazione è per noi partecipazione al dolore espiativo di Cristo. In quella che comunemente si potrebbe definire la sconfitta di Dio, noi ravvisiamo una vittoria a vantaggio dell'uomo. Dio vince per noi sulla croce perché ci guadagna alla vita riscattandoci dal peccato e dalla morte, che affronta lui stesso senza esitazione per ongingere - come diceva qualche teologo - la terra al cielo. Questi due eventi apparentemente contrastanti della gioia e del dolore richiamano la nostra attenzione a che anche per noi si dischiuda come regolare della nostra esistenza la duplice prospettiva del riso e del pianto perché sappiamo gioire ed esultare come pure accettare l'assillo della tristezza e dell'angoscia. Gioire con chi è nella letizia e piangere con chi si trova nelle lacrime (Rm 12, 15) è la prerogativa di chi non rinuncia ad essere uomo e molto più di chi accetta di essere cristiano e per ciò stesso la gioia e il dolore sono all'ordine del giorno e ci accompagnano entrambi come opportunità da non perdersi e trovano il loro fondamento il colui che è entrato a Gerusalemme osannato per trascorrervi una triste permanenza. Lo spirito si tempra con la prova e si risolleva con la letizia e parafrasando Ungaretti possiamo dire che la morte si vince vivendo. L'amore sconfigge la morte e la desolazione ostile del Carso perché ha sconfitto gli scherni e le ostilità del Golgota. |