Omelia (02-04-2010)
padre Lino Pedron


Gesù uscì dal cenacolo per recarsi in un giardino oltre il torrente Cedron. Il ricordo del Cedron richiama la storia del re Davide, quando per la ribellione del figlio Assalonne fuggì da Gerusalemme, attraversò il Cedron (2Sam 15,23) e risalì l'erta del monte degli Ulivi (2Sam 15,30). Giovanni, situando l'incontro di Gesù con il traditore in un giardino, probabilmente allude al peccato del primo uomo: a differenza di Adamo, che nel giardino dell'Eden fu vinto dal serpente tentatore (Gen 2,8ss; 3,1ss), il Cristo riportò vittoria su Giuda che personifica le forze sataniche. Giuda, il traditore, venne a catturare Gesù con un numero imprecisato di soldati romani e di guardie dei sommi sacerdoti. Questo vuol significare che tutte le forze del male, giudei e pagani, hanno congiurato contro il Cristo.
La scena della manifestazione della divinità del Signore (Io sono) trasforma il significato dell'arresto di Gesù: egli si consegna di sua iniziativa ai nemici. Il fatto che i soldati cadano a terra indica con chiarezza che Gesù ha rivelato il suo nome divino "Io sono".
Con l'incolumità dei discepoli (v. 8) si adempie la parola di Gesù: "Di coloro che mi hai dato, non ne ho perduto nessuno" (v. 9). A differenza dei sinottici, Giovanni svela il nome di colui che colpisce con la spada, Simon Pietro, e il nome del servo colpito, Malco. La presentazione della passione, come un calice amaro che Gesù deve bere, la troviamo nella preghiera angosciosa di Cristo al Padre (Mc 14,36 e par.). Pietro con il suo zelo umano si oppone anche in questa occasione alla volontà di Dio espressa da Gesù con le parole: "Il calice che il Padre mi ha dato" (v. 11).
Dopo essersi rivelato come il Signore e dopo aver proclamato la necessità di compiere la volontà del Padre, Gesù si lascia catturare e legare per essere condotto dal sommo sacerdote Anna. Anna fu sommo sacerdote dal 6 al 15 e fu deposto dai romani. Dopo qualche anno gli successe il genero Caifa' che tenne la carica dal 18 al 36. Anna fu sommo sacerdote perché esercitò questo ufficio per una decina d'anni e inoltre perché ben cinque suoi figli e suo genero Caifa ottennero il sommo sacerdozio. Quindi Anna fu molto influente anche quando non coprì personalmente questa carica.
Marco riporta la triplice negazione di Pietro dopo la condanna di Gesù (14,66ss). Luca fa precedere il rinnegamento di Pietro al processo di Gesù (22,55ss). Giovanni pone l'interrogatorio al centro, racchiuso dalle tre negazioni di Pietro (18,18.25), ossia contrappone la ferma testimonianza di Gesù al triplice rinnegamento dell'apostolo.
Interrogato dal sommo sacerdote sui suoi discepoli e la sua dottrina, Gesù risponde con franchezza dichiarando di aver adempiuto la sua missione di rivelatore non di nascosto, ma al cospetto di tutto il mondo, per cui tutti conoscono la sua dottrina. A questa rivelazione completa e perfetta non deve aggiungere nulla (v. 20) e conclude che, invece di interrogare lui, il sommo sacerdote avrebbe fatto meglio a interrogare quelli che l'hanno ascoltato (v. 21). Ma la sua risposta franca fu giudicata insolente da una guardia che gli diede uno schiaffo. Questo è l'unico gesto ingiurioso subìto da Gesù durante il processo giudaico. Quindi il Cristo, nel vangelo di Giovanni, non fu umiliato come descrivono i sinottici, ma conservò tutta la sua dignità regale. Giovanni qui e nel pretorio (19,2-3) ricorda solo gli schiaffi probabilmente perché questo gesto indica il rifiuto violento di una persona: il Cristo del vangelo di Giovanni può essere rigettato, ma non umiliato.
Concluso l'interrogatorio davanti ai capi giudei, Gesù è condotto al pretorio. Era l'alba (v. 28). In questa circostanza traspare con evidenza la fine ironia di Giovanni: i giudei senza scrupolo condannano a morte un giusto, anzi il Santo di Dio, e si preoccupano di non contrarre impurità legali, entrando nella casa di un pagano. In questa situazione il procuratore romano esce dal pretorio e va verso i giudei per conoscere l'accusa contro Gesù.
Ponzio Pilato fu prefetto della Giudea dal 26 al 36 d.C. In base alle informazioni di Filone, di Giuseppe Flavio e di Tacito sappiamo che Pilato esercitò la sua carica con durezza e crudeltà, mostrando il suo disprezzo per i giudei; fu deposto da Vitellio, legato di Siria, per la sua brutalità nel procedere con i popoli sottomessi al governo di Roma. Secondo i sinottici, i giudei portano molte accuse contro Gesù (Mc 15,3 e par.); invece Giovanni riporta la risposta sdegnosa dei capi dinanzi alla richiesta di Pilato (v. 30). Con questa risposta i capi dei giudei fanno intendere a Pilato che Gesù è reo di qualche delitto religioso. Per questo Pilato replica: ‘Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge' (v. 31). I capi dei giudei però non avevano il diritto di eseguire la condanna a morte, perciò risposero al governatore: ‘A noi non è consentito uccidere alcuno' (v. 31). L'annotazione dell'evangelista sull'adempimento della parola di Gesù sul tipo di morte che avrebbe subìto chiarisce che i capi intendevano la crocifissione. Gesù infatti aveva preannunziato la sua esaltazione sulla croce (3,14; 8,28; 12,32). Quindi ai giudei non era consentito eseguire sentenze di morte perché i romani si erano riservati questo diritto. Le esecuzioni ad opera dei giudei registrate nel Nuovo Testamento (At 7,54-60; Gv 8,3ss) e i tentativi di lapidazione (8,59; 10,32) devono essere considerati degli abusi.
Al termine del primo contatto con i capi dei giudei, Pilato entra di nuovo nel pretorio per interrogare Gesù sulla sua pretesa regalità: "Tu sei il re dei giudei?" (v. 33). Giovanni sviluppa il tema della regalità di Gesù in un dialogo di alto valore Cristologico. La regalità di Gesù non è di carattere temporale e politico, ma riveste una finalità rivelatrice: rendere testimonianza alla verità. Gesù è re; lo scopo della sua incarnazione è costituito dall'esercizio di questa funzione regale religiosa. Pilato vuole sapere di quale delitto è accusato Gesù. Dopo aver rivolto la domanda ai capi senza ottenere risposta, ora interroga direttamente l'accusato per conoscere il capo di imputazione. Gesù nella risposta trasporta l'interlocutore dal piano politico a quello religioso, dichiarando che il suo regno trascende l'ordine temporale (v. 36). Il regno di Cristo non è di ordine politico anche se le folle l'hanno acclamato re d'Israele nel suo ingresso messianico in Gerusalemme (12,12-13). Gesù ha sempre rifiutato la regalità mondana: per questo si ritirò sul monte quando i galilei tentarono di prenderlo per proclamarlo re (6,14-15). La prova migliore che il regno di Cristo non è di questo mondo, è l'assenza completa di un esercito che impugni le armi per difenderlo (v. 36). Il Logos si è fatto carne per essere testimone della verità, cioè per manifestare autorevolmente e infallibilmente le realtà celesti che vede e ascolta (3,11.32). Perciò la regalità di Cristo concretamente si identifica con la sua missione rivelatrice e salvifica. Gesù è re perché è l'unica persona in contatto diretto con Dio (1,18) che manifesta e comunica la vita del Padre instaurando nel mondo la presenza salvifica del Signore. L'elemento essenziale del regno consiste nella comunicazione della vita divina all'umanità. Dio regna quando manifesta concretamente la sua potenza salvifica a favore del suo popolo. Il Cristo è re in quanto manifesta e comunica la presenza salvifica di Dio; però la sua regalità non è imposta con la forza o la violenza, ma dev'essere accolta liberamente. Questo atteggiamento dell'accettazione libera viene espresso con la categoria dell'ascolto della voce di Gesù (v. 37): fa parte del regno di Cristo chi riceve docilmente la sua parola. "Essere dalla verità" significa avere l'origine della vita religiosa dalla Parola, cioè essere animati profondamente dalla rivelazione del Cristo, per cui non si subisce alcun influsso malefico del maligno. I giudei che non lasciano penetrare nel cuore la parola di Gesù sono dal diavolo non da Dio, perché non ascoltano il Logos rivelatore. Perciò il discepolo del Cristo, partecipe del suo regno, trova l'origine della propria esistenza nella rivelazione di Gesù, nella sua verità e quindi si dimostra docile alla sua voce (v. 37).
Evidentemente Pilato non poteva capire la profondità delle espressioni del Cristo, perciò domanda: ‘Che cos'è la verità?' (v. 38) e senza attendere risposta esce di nuovo dal pretorio. Con questa domanda e questo atteggiamento Pilato mostra concretamente di non essere dalla verità, perché non ascolta la voce di Gesù.
Pilato dinanzi alla folla dei giudei proclama senza equivoci l'innocenza di Gesù (v. 38). Quindi il tribunale pagano ha proclamato l'innocenza del Cristo; sono stati i capi dei giudei a volere la sua morte.
Il governatore romano, per liberare Gesù, gioca la carta della clemenza a favore di un prigioniero, in occasione della festa di Pasqua. Presentando Gesù come re dei giudei voleva far presa sull'orgoglio nazionale del popolo. La reazione dei giudei è violenta: preferiscono il sedizioso Barabba, imprigionato per omicidio, a Gesù che aveva risuscitato i morti (v. 40).
Gesù usa tre volte l'espressione "il mio regno" nel v. 36 per farci comprendere la natura del suo regno: esso non ha origine da questo mondo, ma da Dio. La sua regalità non ha nulla da condividere con quella del mondo, anche se si estende ad esso. Non è politica perché egli non si serve della potenza e non fa uso della forza di un esercito per difenderla. Non è di origine terrena perché egli non è di questo mondo, ma è venuto in esso per salvarlo e riportarlo al Padre. La sua regalità ha la sua origine dall'alto, è divina e universale. Non è opera umana ma è dono di Dio che si manifesta nell'amore fatto servizio alla verità e alla vita.
Sì, Gesù è re, ma egli presenta la sua regalità collegata alla verità. Egli è il testimone di un Dio-Amore; il rivelatore della verità che conduce al Padre; la manifestazione della presenza di Dio che salva attraverso la sua parola e la sua opera. La verità di cui parla è la manifestazione di se stesso agli uomini e la salvezza che dona a loro per mezzo della conoscenza che essi hanno di lui. Egli è re di "chiunque è dalla verità", ossia di ogni uomo che ascolta la sua parola, la interiorizza e la vive.
Pilato non ha compreso nulla né della regalità, né della verità, né tantomeno di avere davanti a sé colui che è la Verità.
La regalità di Gesù, così fortemente legata alla croce, è esattamente il contrario del trionfalismo e dell'oppressione dei re di questo mondo. Il Cristo regna dalla croce morendo per salvare l'umanità. La sua regalità è tutta misericordia, solidarietà con i peccatori e perdono.
Dinanzi alla richiesta popolare, Pilato liberò l'assassino e fece flagellare Gesù (19,1). Il comportamento del governatore può sembrare crudele e incoerente, avendo egli riconosciuto e proclamato l'innocenza di Gesù. Nell'interpretazione di Giovanni, però, appare come un atto di clemenza per placare il furore della folla. Difatti, subito dopo la flagellazione, Pilato conduce fuori Gesù sperando di ottenere il consenso dei giudei per la sua liberazione (19,4ss). La coronazione di spine è una parodia inventata dai soldati pagani per dichiarare Cristo re. Questo episodio va letto a un duplice livello: storicamente costituisce una beffa dei soldati romani; Giovanni però vi vede un'autentica proclamazione della regalità di Cristo da parte dei pagani; per questo elimina quegli elementi oltraggiosi e umilianti che possono offuscare tale lettura Cristologica.
Dopo la flagellazione Pilato uscì dal pretorio per proclamare ancora una volta l'innocenza del Cristo e annunciare che lo avrebbe condotto al loro cospetto. Gesù uscì "portando la corona di spine e la veste di porpora", segni della regalità; allora Pilato proclamò: "Ecco l'uomo" (19,5).
Nella scena finale del processo romano, Pilato esclamerà davanti ai giudei: "Ecco il vostro re" (v. 14). Quindi l'uomo incoronato e rivestito del manto regale è un re che non fa paura. L'uomo che ora è giudicato è stato costituito giudice unico e supremo, perché figlio dell'uomo (5,22.27), il Logos diventato carne (1,14). Tra il titolo "figlio dell'uomo" e l'espressione "uomo" di 19,5 esiste una grande somiglianza. Nel quarto vangelo ambedue le locuzioni sottolineano l'umanità del Figlio di Dio, rivelatore del Padre.
I capi, al vedere Gesù con la corona e il manto regali, schiamazzarono: "Crocifiggilo, crocifiggilo" (19,6). Pilato però non si arrende dinanzi alla richiesta dei capi e proclama nuovamente l'innocenza di Gesù, perciò propone loro di prendere il prigioniero e di crocifiggerlo, come già si era espresso nel primo dialogo con la folla (18,31). La risposta dei capi contiene la causa ultima del loro odio religioso contro Gesù: secondo la legge giudaica deve morire perché si è fatto Figlio di Dio (v. 7). Pilato, sentendo questa accusa, ebbe ancor più paura (v. 8). Imbevuto com'era di mitologia e di superstizione, temette di trovarsi dinanzi a uno dei semidei del panteon pagano, perciò, entrato nel pretorio, chiese a Gesù: "Donde sei tu?" (v. 9). L'avverbio "donde" nel vangelo di Giovanni indica l'origine misteriosa di Gesù e dei suoi doni (4,11; 7,27-28; 8,14; 9,29-30). Gesù però non rivela a Pilato la sua origine. Questi rimane sconcertato per l'atteggiamento di Gesù e gli ricorda il suo potere supremo di decretare la sua liberazione o la sua crocifissione. Gesù ricorda a Pilato che il suo potere gli viene dall'alto, cioè da Dio, il quale gli permette di procedere contro il Cristo; tuttavia la maggiore responsabilità della sua condanna a morte deve essere attribuita al traditore Giuda e ai giudei che lo hanno consegnato al tribunale pagano (v. 11). Il peccato di Pilato sta nell'abuso di potere e nella viltà, ma sono i capi del popolo e Giuda che hanno voluto la morte di Cristo.
Il giudice romano rimase molto impressionato dalla risposta di Gesù, perciò "cercava di rimetterlo in libertà" (v. 12). Questo tentativo di Pilato è registrato in tutti quattro i vangeli. La reazione dei giudei però scoraggia il governatore, anzi contiene una velata minaccia di accusa presso l'imperatore: "Se rimetti in libertà costui, non sei amico di Cesare; chi si fa re, si oppone a Cesare" (v. 12). L'accusa di non essere amico dell'imperatore era la minaccia più grave per un romano desideroso solo di far carriera politica, perché il successo in questa strada dipendeva dal favore dell'imperatore.
All'udire le minacce dei giudei, Pilato "condusse fuori Gesù verso il luogo detto Litòstroto... e lo fece sedere nel tribunale" per proclamarlo re (v. 13). Pilato fa sedere il Cristo sul trono e lo proclama re dei giudei. A livello storico appare con evidenza il disprezzo di Pilato contro il popolo ebraico, ma nella mente dell'evangelista il Cristo è presentato come re-giudice che siede in tribunale.
Dinanzi allo scherno del governatore romano, i giudei reagiscono schiamazzando e gridando: "Via! Via! Crocifiggilo" (v. 15). E Pilato insiste sullo scherno, dicendo: "Crocifiggerò il vostro re?". La dichiarazione finale dei sommi sacerdoti esprime l'abisso dell'incredulità dei capi; costoro non solo rifiutano la regalità di Gesù, ma anche quella di Dio, perché proclamano: "Non abbiamo (altro) re se non Cesare". Il Signore doveva essere l'unico re d'Israele (1Sam 8,7; 12,12), invece i capi dei giudei affermano solennemente che l'unico loro re è l'imperatore romano. Con queste espressioni è consumato il rifiuto totale e completo del Cristo e termina il dramma del processo di Gesù con la consegna della sua persona ai giudei, perché fosse eseguita la crocifissione.
Coloro che dovevano eseguire la condanna presero in consegna Gesù, il quale portando su di sé la croce uscì verso il Calvario (che significa cranio), in ebraico detto Golgota. Il Calvario era un piccolo colle brullo e spoglio di vegetazione, per questo chiamato "cranio", situato fuori le mura di Gerusalemme, ma vicino alla città. Su questo piccolo colle Gesù fu crocifisso tra altri due condannati. A questo punto Giovanni dedica un brano intero alla scritta posta sulla croce di Gesù: "Gesù il nazareno, re dei giudei" (v. 19). Il titolo era scritto in tre lingue: quella della popolazione indigena, l'ebraico; quella dei dominatori, il latino; quella internazionale, il greco. Giovanni vuole insinuare sottilmente l'universalismo della regalità di Cristo.
La scritta di Pilato irritò i sommi sacerdoti, i quali dissero al governatore romano: "Non scrivere: ‘Il re dei giudei', ma che egli ha detto: ‘Sono re dei giudei'" (v. 21). I capi hanno capito l'umiliazione della scritta e per questo non vogliono, neppure per burla, che il nazareno sia proclamato loro re. Il governatore però rimase fermo nella sua decisione, per assaporare la gioia della rivincita e dell'umiliazione dei giudei.
La divisione e il sorteggio dei vestiti realizzano la profezia del salmo 22,19. I crocifissosi avevano diritto sugli indumenti dei condannati. I soldati divisero le vesti di Gesù in quattro parti. Da questo dettaglio siamo informati che i crocifissosi del Cristo furono quattro. La tunica del Maestro però creò un problema: "Era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo" (v. 23): per questo la tirarono a sorte. Nel comportamento dei soldati l'evangelista vede l'adempimento del salmo 21,19: "Si divisero le mie vesti e sui miei indumenti gettarono la sorte". Nella tradizione cristiana la tunica di Gesù, senza cuciture, spesso è stata vista come segno dell'unità della Chiesa, a somiglianza della rete di Simone Pietro che non si ruppe, pur contenendo una quantità così grande di pesci (21,11).
Anche la scena dei vv. 25-27 è carica di simbolismo. L'elemento storico è interpretato a un livello molto profondo, perché l'evangelista vede in esso un significato ecclesiologico di grande importanza: la proclamazione di Maria, madre della Chiesa. Solo Giovanni ricorda la madre di Gesù e il discepolo amato e ci informa che erano "presso la croce", mentre i sinottici ci dicono che le pie donne stavano lontano. Ma l'elemento caratteristico di questa scena è rappresentato dalle parole di Gesù alla madre e al discepolo amato. Con le parole rivolte a sua madre: "Donna, ecco tuo figlio" (v. 26), Gesù costituisce Maria madre del discepolo che personifica tutti i discepoli del Cristo. Quindi Maria è proclamata madre della Chiesa dal Figlio di Dio. Con le parole rivolte al discepolo, Gesù chiarisce e ribadisce il suo pensiero: "Ecco tua madre" (v. 27). Maria è veramente la madre dei discepoli del Cristo, ossia è madre della Chiesa. La scena si conclude con la frase: "E da quell'ora il discepolo l'accolse nei propri (beni)". Il discepolo amato, rappresentante di tutti i credenti, accoglie la madre del Cristo come sua, quale tesoro preziosissimo.
La scena che descrive gli ultimi istanti di Gesù crocifisso fino alla sua morte (vv. 28-30) è incentrata sul tema del compimento perfetto della Scrittura. Nella sua scienza divina Gesù è consapevole di aver compiuto perfettamente l'opera di Dio (4,34), cioè la sua opera rivelatrice e redentrice (17,4), e quindi può morire per consegnare alla Chiesa lo Spirito, cioè per iniziare l'era dello Spirito santo. Egli ha sete (v. 28) di chiudere la sua giornata per aprire la strada al Paraclito, consegnandolo alla Chiesa nell'istante della sua morte.
La sete è caratteristica nei moribondi che hanno perduto molto sangue. Ma la sete di Gesù ha un profondo significato: quello di donare la persona divina dello Spirito santo alla sua Chiesa. Il gesto dei soldati che porgono dell'aceto a Gesù richiama il salmo 69,22, dove il povero perseguitato si esprime così: "Quando avevo sete, mi hanno dato aceto". Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù pronunziò l'ultima parola: "E' compiuto!". Con la sua morte il Cristo ha rivelato in modo perfetto il suo amore e quello del Padre per l'umanità peccatrice. Egli ha compiuto l'opera affidatagli dal Padre (17,4) e perciò può chiudere volontariamente la sua giornata inclinando la testa e consegnando lo Spirito. Quest'ultima espressione non significa solo la morte del Signore, ma anche il dono dello Spirito Santo alla Chiesa nascente: morendo sulla croce Gesù consegnò alla sua comunità lo Spirito. Il giorno della sua risurrezione Gesù dirà agli apostoli: "Ricevete lo Spirito Santo" dopo aver mostrato loro le mani e il costato con le ferite della crocifissione (20,20.22). Il dono dello Spirito alla Chiesa è legato alla morte e alla risurrezione del Signore.
Dopo la morte di Gesù l'evangelista riporta una scena originalissima nella quale il Cristo è presentato come l'agnello pasquale che doveva essere immolato senza fratture. Data l'imminenza della festa di Pasqua i giudei si preoccupano di osservare la legge che prescrive la rimozione dei cadaveri dei giustiziati prima della sera (Dt 21,22-23); tanto più questo precetto doveva essere rispettato in occasione della Pasqua. Per tale ragione i capi si premurarono di non lasciare i corpi dei condannati sulla croce nel giorno di quel sabato solenne e pensarono di accelerare loro la morte con la frattura delle gambe. Questa crudeltà doveva servire ad accorciare l'agonia dei crocifissi, i quali, non potendo più far leva sui piedi per respirare, sarebbero morti soffocati. I giudei perciò si rivolsero a Pilato per ottenere la frattura delle gambe dei condannati per farli morire subito e così deporli dalla croce prima del tramonto del sole, cioè prima che iniziasse la solennità della Pasqua.
I soldati romani vennero sul Calvario e spezzarono le gambe ai due crocifissi con Gesù, ma "venuti da Gesù, come videro che egli era già morto, non gli spezzarono le gambe" (v. 33). Così il Cristo è presentato come l'agnello pasquale al quale non doveva essere rotto alcun osso (v. 36). E questo avvenne nella stessa ora in cui nel tempio di Gerusalemme si immolavano gli agnelli pasquali.
A questo punto della narrazione Giovanni rileva un dettaglio al quale annette grande importanza: "Uno dei soldati con una lancia colpì il suo fianco e subito ne uscì sangue e acqua" (v. 34).
Come abbiamo constatato a più riprese nel vangelo secondo Giovanni, l'acqua viva o corrente donata dal Cristo, simboleggia il sacramento dell'Eucaristia (Gv 6,53ss). Perciò il Cristo crocifisso viene presentato come la fonte della vita eterna e della salvezza, in quanto rivelatore perfetto dell'amore di Dio e autore del sacramento dell'Eucaristia.
L'evangelista si presenta lungo tutto il vangelo come testimone diretto di tutti gli eventi che narra, ma qui, nel v. 35, ribadisce che la sua testimonianza è verace. L'appello alla veracità della testimonianza di chi ha visto, vuole inculcare la storicità della scena del versamento del sangue e dell'acqua dal fianco del Cristo crocifisso e favorire la fede dei lettori del suo vangelo. La contemplazione della rivelazione suprema dell'amore di Gesù sulla croce, con il costato trafitto, immolato come l'agnello pasquale, suscita la fede esistenziale che si concretizza in un contraccambio d'amore. Se i segni operati da Gesù devono favorire la fede in lui, Messia e Figlio di Dio (Gv 20,30-31), a maggior ragione il segno supremo della carità di Cristo, con il petto squarciato, deve invitare a credere esistenzialmente nella sua persona divina, perché gli eventi descritti in questa scena adempiono la Scrittura (v. 36). Perciò l'adempimento dell'Antico Testamento nella vita di Gesù costituisce un argomento a favore della fede nel Cristo, Figlio di Dio, perché in tal modo è mostrato che egli è il personaggio predetto dai profeti, che riempie di sé tutta la Bibbia.
Gli oracoli dell'Antico Testamento realizzati nella scena del colpo di lancia sono due: il primo concerne l'agnello pasquale, il secondo il personaggio messianico trafitto. Nella Bibbia era prescritto che l'agnello pasquale dovesse essere immolato senza frattura di ossa (Es 12,46; Nm 9,12). Ora con la sua morte Gesù ha adempiuto anche questo dettaglio della Scrittura (vv. 32.36). Il colpo di lancia con il quale Cristo fu trafitto ha realizzato un altro passo biblico, quello di Zaccaria 12,10 nel quale si parla dello sguardo a colui che hanno trafitto. Evidentemente lo sguardo al crocifisso trafitto è lo sguardo della fede, simile a quello rivolto al serpente di bronzo (Gv 3,14-15).
Nel brano finale di Giovanni 18-19 il quarto evangelista si riallaccia al racconto dei sinottici. La nota caratteristica su Giuseppe di Arimatea, che era un discepolo del Signore, ma in segreto, per la paura dei giudei, aggiunge un elemento nuovo a quanto avevano detto i sinottici che lo avevano descritto semplicemente come un pio e influente membro del sinedrio. Solo Giovanni introduce in scena un altro attore: Nicodemo, personaggio ben noto al lettore del quarto vangelo per il suo dialogo notturno con Gesù (Gv 3,9). Secondo la narrazione di Giovanni, Giuseppe di Arimatea e Nicodemo accolsero il corpo di Gesù come un bene prezioso e lo avvolsero in piccoli lenzuoli (othónia) con gli aromi, secondo il costume giudaico (v. 40). Nel descrivere la sepoltura di Gesù, Giovanni, in modo originale, parla di un giardino vicino al luogo della crocifissione; in esso vi era un sepolcro nuovo nel quale non era stato posto nessuno (v. 41). Il corpo di Gesù fu deposto in questo sepolcro vicino, perché ormai stava per finire la Preparazione dei giudei (v. 42). Al tramonto del sole infatti iniziava ufficialmente la festa di Pasqua.