Omelia (04-04-2010)
mons. Roberto Brunelli
L'ultima parola

E' Pasqua, è la festa centrale dei cristiani, la fede dei quali poggia tutta sulla risurrezione; con Gesù la morte non è la fine: l'ultima parola è quella della vita. In tal senso l'evento pasquale riguarda non solo i cristiani, ma tutti gli uomini; è un annuncio di speranza e di futuro per un mondo che, dietro i tanti paraventi e gli specchietti inventati per nasconderlo, sembra oscuramente segnato proprio dalla morte. E non solo quella naturale, che ci tocca nelle persone amate; più tragica è la morte violenta, provocata dall'incoscienza o dalla malizia degli uomini: dalle guerre, dalla droga, dalle mafie, dalla fame, dagli incidenti stradali, dalle malattie evitabili, dall'intolleranza, dalla violenza sopraffattrice.
Ma ecco: in questo quadro disperante è brillata, e continua a splendere, la luce del Risorto, il quale continua a indicare agli uomini la via che porta a lui, vivente in eterno. Ai cristiani spetta il compito di annunciarlo, di generazione in generazione; per questo Gesù ha istituito la sua Chiesa, che è la sua famiglia, l'insieme di quanti ripongono la propria vita nelle sue mani, e pur consapevoli di avere per primi bisogno della sua misericordia cercano di renderne partecipi quanti ancora non lo sanno o l'hanno dimenticato. La Pasqua, quando è autenticamente vissuta, comporta una gioia tanto grande da non poterla contenere nel privato della propria intimità; la gioia vera si espande, e si accresce quando è condivisa.
Tra i diversi brani di vangelo proposti dalla liturgia pasquale si legge anche quello in cui Luca racconta, prima delle manifestazioni del Risorto, i fatti della mattina di Pasqua. Le pie donne si recano al sepolcro per completare sul corpo di Gesù i riti funerari, forzatamente interrotti all'arrivo del sabato che secondo la legge impediva ogni lavoro. Ma trovano il sepolcro aperto e vuoto: si intuisce la loro perplessità, il loro ansioso interrogarsi su quanto poteva essere accaduto. Lo comprendono solo per un intervento dall'alto: "Ecco due uomini presentarsi a loro in abito sfolgorante". Questi angeli sono qui l'espressione dei tanti segni che anche in seguito Dio ha disseminato e continua a disseminare, per illuminare le coscienze disponibili ad accoglierlo: per esempio il tanto bene che in nome di Cristo è stato compiuto nei secoli; ancora per esempio, il fatto umanamente inspiegabile che la Chiesa, malgrado gli innumerevoli attacchi dei suoi nemici e persino di alcuni che se ne proclamano membri, sia ancora in piedi ed anzi in espansione.
Tornando alle donne al sepolcro, i due "uomini in abito sfolgorante" ricordano loro che Gesù aveva predetto la propria morte e la risurrezione: quello che allora i discepoli non avevano capito e perciò non avevano considerato, ecco, si è avverato; l'hanno visto crocifisso, ed ecco, il terzo giorno è risorto. Esse allora, precorritrici dei tanti che in seguito si sono fatti annunciatori della "buona novella", si recano subito a dirlo agli apostoli, presso i quali però, come si sarebbe ripetuto tante volte in seguito ai testimoni del vangelo, non trovano credito: "Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credevano ad esse". Tuttavia, anche in ciò anticipando il normale processo di espansione della fede, uno almeno è preso dal dubbio, e ritiene sia il caso di verificare: "Pietro si alzò, corse al sepolcro e, chinatosi, vide soltanto i teli. E tornò indietro, pieno di stupore per l'accaduto".
I teli. Sta per cominciare a Torino l'esposizione della sindone, dove trova evidenza sino a che punto un uomo possa soffrire. Quanti si recheranno a verificarlo, non dovranno dimenticare che, come Pietro al sepolcro, del Crocifisso essi vedranno i teli, non lui. Lui, come aveva predetto, è risorto.