Omelia (01-04-2010) |
don Maurizio Prandi |
Un Dio che approfitta per amare di più Domenica scorsa, condividendo la Parola di Dio con i miei parrocchiani qui a Cuba, si è rafforzata in me questa idea che si è affacciata la terza domenica di Quaresima a proposito del fico che non portava frutto: Dio coglie il nostro non frutto come una opportunità per amare di più. E mi veniva in mente questo anche a proposito dell'Ultima Cena, quando il tradimento di Giuda e il rinnegamento successivo di Pietro non vengono letti da Gesù alla luce di un giudizio o di una condanna, ma come un'occasione per amare di più, per obbedire al disegno del Padre facendo della sua vita un dono. Leggevo in questo un segno importante di misericordia e di luce in una vicenda, la passione di Gesù, che rischiavo di leggere solamente alla luce del dolore, della sofferenza, della morte. E oggi, in modo ancora più chiaro se possibile, è ritornata questa idea, nella condivisione con i carcerati nella prigione di Manacas. Del vangelo di questo Giovedì santo mi sembrava bello sottolineare con loro proprio questo aspetto: in Gesù Dio non ci giudica, ma ci ama oltre ogni limite, oltre ogni misura. Ci siamo fermati sul versetto 1b del capitolo 13 del vangelo di Giovanni "avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine": sulla scorta di parole ascoltate da don Bruno Maggioni in un corso di esercizi spirituali ho detto che c'è un po' tutta la vita di Gesù qui... avendo amato, cioè quello Lui ha fatto per tutta la vita... ha amato annunciando il volto di Dio, portando il suo perdono, sanando, invitando a seguirlo, invitando a stare con lui; li amò, cioè quello che sta per accadere, la lavanda dei piedi, la passione, il dono della vita, un amore che è sino alla fine, fino all'ultimo istante, fino all'ultimo respiro, senza ripensamenti, definitivamente consegnato. Di questa metà versetto mi è anche piaciuto sottolineare per i carcerati ma anche per me, per le persone che incontrerò più tardi nelle comunità, che ancora una volta il vangelo dice il nostro nome: i suoi... che bello il nostro nome... mi chiamo Maurizio, ma anche: suo e Marcelino, che non so cosa abbia fatto per stare in carcere si chiama così ma anche: suo e così tutti gli altri che erano lì, Dio parla al loro cuore e dice: mio... e Dio ama perché sa che non è facile, non è facile la vita di nessuno di quelli che come è scritto nel vangelo sono nel mondo. Interpreto così per quello che ricordo degli studi di Sacra Scrittura: il mondo per l'evangelista Giovanni non è il luogo della sicurezza, della custodia, ma dell'insidia, del pericolo, della non comprensione, e allora ecco che il vivere nel mondo espone i figli di Dio alla possibilità dello sbaglio, dell'errore e del perdersi. Non per questo siamo da Lui giudicati, anzi, siamo oggetto della manifestazione del suo amore. Mi si può obiettare che qui Gesù parla dei discepoli: certo, è vero, ma credo che in Giuda o Pietro parla anche a me, come a Francesco che, ho detto oggi agli ospiti del carcere, è un ragazzo italiano buonissimo, un vero e proprio angelo che però viveva nel mondo e la sua bontà è stata anche la sua fragilità e ora sta scontando una pena di molti anni in Italia. Sento così l'amore di Gesù per noi che stiamo nel mondo, come un amore tanto grande quanto grande è la nostra fragilità, la possibilità di sbagliare, di cadere. Un amore che non dà le spalle, al contrario, sta di fronte, è un amore che si china, si inginocchia per dire anche a Giuda che, nonostante il diavolo sia già entrato in lui, c'è una dignità incancellabile, e l'intensità e la fedeltà del suo amore non verranno meno, giungeranno fino alla morte (don B. Maggioni). Nei suoi discepoli Gesù lava i piedi a tutta l'umanità. Ai figli del tuono per dire loro e a tutti quelli che come loro cercano visibilità e potere che il senso della vita non è cercare i posti più importanti; a Simone lo Zelota e a tutti quelli che come lui pensano di cambiare una situazione con la forza per dirgli che alla violenza è necessario rispondere con la mansuetudine; a Giuda, per dirgli che non c'è bisogno di consegnarlo, perché lui è il primo ad offrirsi ai suoi piedi; a Pietro per dirgli: ti chiamerai servo dei servi, perché non nella ricerca di garanzie e privilegi, ma solamente servendo i piccoli nel totale disinteresse gli uomini potranno riconoscere nella chiesa il volto di Dio. Sento una bella continuità con la liturgia di domenica scorsa: quell'ingresso trionfale a cavallo di un'asina e quel divinamente umile (non nonostante sia Dio, ma proprio perché è Dio Gesù si inginocchia...) inginocchiarsi di Gesù ai piedi dei discepoli: è qui che sento un messaggio importante per la nostra chiesa, la cui unica ricchezza è e deve essere ri-dire le parole che Gesù ha consegnato e ri-fare i gesti di cui, con amore e tenerezza è stata oggetto. |