Omelia (02-04-2010) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Sacerdote capace di compatire Leggiamo nella Lettera agli Ebrei: "Poiché abbiamo un grande sommo sacerdote che ha attraversato i cieli, Gesù, Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della nostra fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato provato lui stesso in ogni cosa, come noi, escluso il peccato." (Eb 4, 14-15) Gesù, che il Padre ha esaltato come il Cristo Messia Salvatore è il vero sommo sacerdote che realizza un ministero del tutto particolare, di partecipazione alle nostre debolezze e alle nostre sofferenze, immedesimandosi in tutti gli aspetti precari del nostro vissuto, perché egli stesso ha subito ogni sorta di prove e di umiliazioni, come pure è stato sottoposto a precarietà e insufficienze. Il sacerdozio di Cristo è particolarmente suggestivo e singolare per questa "compassione" (con patire) nei nostri confronti, la quale non si fonda su una semplice condivisione del nostro stato d'animo quale potrebbe essere una fugace condoglianza o una sorta di cordoglio fra i molti che restano cosa estranea e avulsa, ma scaturisce dalla stessa sofferenza che Egli ha sperimentato, dal sacrificio, dal dolore e, come afferma la stessa lettera, soprattutto dall'obbedienza al Padre: "Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì"(Eb 5, 8). Infatti chi obbedisce, patisce. La sottomissione alla volontà altrui e la rinuncia alle personali predisposizioni, anche nei casi relativamente più semplici e piacevoli, procura sempre un certo grado anche minimo di dolore e quella di ubbidire è una virtù provata che richiede molto spesso le fondamenta solide dell'umiltà, della mansuetudine e pazienza. Non di rado obbedire è anche rinunciare, servire, deprezzarsi in vista dell'esclusivismo della volontà altrui nell'accettazione di ingiustizie, privazioni e sopraffazioni. In tutto questo noi abbiamo un incoraggiamento e un incentivo nonché una solida base per la perseveranza e la costanza nella persona del Cristo che per noi si è fatto obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,8). Espressione massima della sottomissione alla volontà del Padre è infatti l'esperienza del Golgota nella quale Cristo si fa sommo sacerdote nell'annichilimento e nella sottomissione tipica dell'agnello condotto al macello che non resta impassibile agli oltraggi e agli insulti e alle umiliazioni (Is 53). Nella croce certo avviene qualcosa di grande e considerevole: Cristo offre se stesso come vittima immolata in luogo delle vittime animali prescritte dal Levitico, spargendo il proprio sangue in riscatto dei peccati degli uomini in luogo del sangue animale, rendendosi egli stesso Agnello e vittima di espiazione in luogo del prescritto capro espiatorio della Legge antica (Lv 16). Il suo sangue sparso sulla croce lo rende sacerdote eterno, non necessitato ad entrare ripetutamente in templi costruiti da mani d'uomo, ma essendo Egli stesso il tempio luogo di comunicazione fra Dio e l'uomo (Eb 9 - 10). Nel suo sangue siamo stati redenti e riconquistati al peccato. Lo stesso sacerdozio di Cristo, nella peculiarità dello strumento patibolare su cui viene consumato, ci ispira l'idea di Chi ha condiviso con noi pene, dolori, ingiustizie e riprovevoli discordie da parte di altri, per cui ancora adesso il nostro patire è anche il suo. Per dirla con San Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo ad edificazione del suo Corpo che è la Chiesa." La croce di Cristo è il luogo in cui le nostre attese si concepiscono speranze e dove trova senso il patimento continuo di nostri giorni terreni e per questo non possiamo omettere di considerare colui che imparò l'obbedienza dalle cose che patì e condivide con noi le medesime angosce, destinate però a non restare un dato definitivo in se stesse, ma orientate verso la gloria futura della risurrezione. La croce infatti, seppure è la configurazione del cristiano, non è l'ultima parola della sua vita e non tarderà a trasformarsi nella trasformazione delle speranze in certezze definitive di gioia infinita nel Cristo Risorto. Onoriamo pertanto il vessillo del supplizio del nostro Redentore Sacerdote eterno che ostentiamo davanti all'altare nelle prime ore di questo pomeriggio; esso non è un semplice oggetto ligneo superficiale ma riproduce il medesimo Strumento di salvezza che intende accompagnarci passo dopo passo verso la gloria della risurrezione seppure nel passaggio doloroso ma necessario della croce e osserviamo anche come sulla medesima è Dio che muore. Sì, Dio autore della vita (At 3, 15) che nonostante possa averne ragione esercitando su di essa un indomito potere indiscusso si sottomette come tutti all'incognita della morte e al suo mistero intrinseco fondamentale; lui che aveva dominato la morte nella resurrezione della figlia di Giairo e dell'amico Lazzaro, si lascia da essa dominare nella consegna dello Spirito al Padre; probabilmente nel suo morire dopo lunga agonia Cristo vuole inculcarci l'associazione fra dolore e morte, fra provvisorietà e trapasso e rivelando che anche il morire ha un senso, come pure un senso ha la sua accettazione oggettiva. Questo senso si chiamerà poi risurrezione che avvincerà nel suo valore glorioso di salvezza tutti coloro per cui Cristo non morirà più, ma che per adesso si evince nella dimensione dell'Amore: morire per un'idea, per una causa o per una persona vuol dire amarla fino alla fine; lo dimostra non solo l'eroismo di chi offre la propria vita nel pericolo o nel dolore fisico, ma anche di chi accetta di affrontare l'impensabile che la morte comporta in se stessa. Insomma morire per qualcosa che ci è caro è espressione effettiva dell'amore e con il suo concedersi alla morte Cristo ama l'umanità immensamente essendo la sua causa l'umanità. |