Omelia (14-03-2010) |
don Daniele Muraro |
Testimoniare la misericordia del Padre Le prime righe del Vangelo di oggi stabiliscono un collegamento tra la situazione in cui Gesù si trova a parlare e l'argomento della parabola. Gesù racconta la storia di un perdono grandioso, concesso prontamente da un Padre misericordioso ad un figlio rovinato. Ma lo fa rispondendo alla mormorazione di scribi e farisei che lo criticavano perché Egli stesso si dimostrava troppo disponibile, secondo loro, verso quelli che avevano peccato: "Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!" Attraverso una parabola ben congegnata, il Signore vuole dire che il primo ad essere contento del suo modo di fare è Dio stesso. Egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Dio è sempre pronto a mettere in una condizione migliore di quella di partenza chi rientra in se stesso e si presenta a Lui riconoscendo il proprio stato. Dio è un Padre misericordioso che non perde mai la speranza di rivedere presso di sé i figli traviati. Il trattamento che Gesù riserva ai peccatori è concordato con Dio Padre, viene da Dio e a Dio vuol far ritornare. Gesù non amministra una giustizia solo sua, ma si fa portavoce di una perdono di cui Dio stesso è fautore. Di conseguenza nella seconda lettura abbiamo ascoltato da san Paolo: "Le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove." E ancora: "Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo". Paolo si presenta come nelle vesti di un ambasciatore mandato da parte di Dio e latore di un messaggio pressante: "Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio." La prima predicazione Gesù la realizzava con la propria vita, Paolo lo segue anche nella preoccupazione di invitare alla riconciliazione, ossia a ricevere il perdono. Così dovrebbe essere del sacerdote quando si dispone ad amministrare il sacramento della riconciliazione ascoltando la confessione dei peccati. Le condizioni per ricevere il perdono di Dio non sono solo il pentimento e la dichiarazione delle proprie colpe, ma anche il ministero del sacerdote, senza il quale la confessione non è completa. Tutto quello che ci si tiene per sé soli viene rimuginato dentro la coscienza, senza con ciò diventare mai comunicazione efficace. Al contrario ciò che si trasmette troppo velocemente agli altri servirà forse da stimolo, ma è impossibile gustarlo interiormente. Resta frase e non diventa scambio confidenziale, non produrrà legami duraturi. La pratica della confessione sacramentale si pone a metà tra il lavorìo della coscienza che è difficile far tacere e l'euforia della divulgazione che cancella ogni riservatezza. "Ho peccato verso il Cielo e davanti a te" dice il figlio minore nella parabola. Davanti al sacerdote e solo davanti a lui ci si confessa per i peccati verso il Cielo e se ne ottiene l'assoluzione riunendosi anche alla comunità di fede. Quindi la confessione è il sacramento più esistenziale tra quelli istituiti da Gesù Cristo: "A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati". Questa frase non va intesa come un potere di arbitrio che Gesù avrebbe consegnato ai suoi ministri in maniera che possono fare secondo il loro capriccio e tenere in scacco i penitenti. Piuttosto si tratta di una responsabilità che Gesù affida ai sacerdoti: essi devono sapere che senza del loro interessamento i fedeli non possono raggiungere la riconciliazione con Dio e la riaggregazione con la comunità. È l'appello che il vescovo mons. Zenti ha rivolto a noi sacerdoti durante il ritiro di inizio Quaresima. Riferendosi alla parabola di oggi il Vescovo diceva: "Il confessore imita quel padre soprattutto con i suoi atteggiamenti. Il primo dei quali si concretizza in una accoglienza da abbraccio spirituale, cui segue l'ascolto, non sbrigativo e impaziente, ma partecipe e benevolo della storia di un'anima. Il confessore abbia i tratti dell'amabilità e della dolcezza, della affabilità e della delicatezza, della cortesia e della finezza d'animo. Le qualità che noi stessi nel momento dell'essere penitenti vorremmo ritrovare nel nostro confessore. Non facciamo pesare a nessuno il ritorno a Dio, nell'atto della conversione... Al penitente poi che riceve validamente la assoluzione, attraverso i suoi atteggiamenti e le sue parole, il confessore faccia fare l'esperienza di un Gesù che gli vuole infinitamente bene, lo incoraggia e lo rimotiva al punto da fargli percepire come affascinante e realizzabile la fedeltà a Dio, gli ridona quella carica di fiducia per cui si rimette in cammino; gli fa ricuperare il gusto della pulizia e della bellezza di una interiorità risanata da un amore misericordioso divino; gli fa intuire come si sta bene quando il cuore è in pace con Dio; e gli fa venir la voglia di ritornare ogni volta che ne abbia necessità." La confessione desiderata fa alzare chi è caduto e lo mette in cammino verso la casa del Padre, cioè la Chiesa. La confessione pronunciata in quell'anticamera del tempio che è il confessionale, rimette in ginocchio il penitente ed è allora che il sacerdote da parte sua deve studiarsi di risollevare spiritualmente chi in questa seconda capitolazione rischia di rimanere demoralizzato e intristito. Abbiamo detto che accanto alla dimensione interiore del peccato ce n'è anche una comunitaria, ecclesiale; alla stessa maniera la riconciliazione con Dio deve propagarsi in un riappacificazione con se stessi e in un riavvicinamento alla comunità. Insieme con l'assoluzione rituale anche curare questo secondo aspetto appartiene al ministero specifico del sacerdote. Perché la festa sia completa occorre che sia convertita non solo la parte del figlio minore allontanatasi da casa, ma anche la parte di ciascuno mai andata via, ma nemmeno mai avvicinatasi a Dio e al prossimo, come era successo nel caso del figlio maggiore. Allora il ritorno alla vita sarà completo e porterà frutti buoni nel tempo. |