Omelia (06-07-2003)
don Roberto Rossi
Venne in casa e i suoi non lo accolsero

"Venne in casa sua e suoi non lo accolsero". Quello che l'evangelista Giovanni dice a riguardo del mondo intero che non ha saputo riconoscere e accogliere il Figlio di Dio, si può applicare a quello che racconta Marco nel testo di oggi: come gli abitanti di Nazaret non hanno accolto e riconosciuto il loro compaesano nel momento in cui si presenta come il Messia Salvatore. Il racconto evangelico è semplice e scarno. Il ministero di Gesù in Galilea si conclude con un fallimento, col rifiuto da parte dei suoi concittadini. Eppure l'inizio era stato buono. Lo stupore di fronte alla sapienza e ai miracoli di quell'uomo, che credevano di conoscere tanto bene, aveva portato gli abitanti di Nazaret a porsi la domanda giusta, che avrebbe potuto condurli alla fede: "donde gli vengono queste cose?" Sarebbe bastato che si ricordassero di ciò che era stato annunciato da Mosè: "Il Signore tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto" (Dt.18,15)

Per parlare agli uomini, normalmente Dio sceglie delle persone che sono loro vicine. La fede degli abitanti di Nazaret, invece, si arresta proprio davanti al carattere consueto e familiare della presenza di Gesù: non è così che essi immaginavano un uomo di Dio, un profeta. Per loro è difficile pensare alla presenza di Dio in un uomo come loro, nella situazione più ordinaria di famiglie, di lavoro, di parentela, di amicizia: "Non è lui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone?".

Anche Gesù rimane sorpreso: di fronte al loro scetticismo, si trova come disarmato, incapace di fare miracoli, eppure chissà quanto aveva amato la sua gente, per trent'anni aveva vissuto con loro, nell'attesa di poterli avvicinare al mistero e alla bontà di Dio Padre... Ma essi si scandalizzavano di Lui, lo prendevano con un bestemmiatore, un illuso o un matto; in ogni caso non gli permisero che si dichiarasse e si manifestasse come Figlio di Dio.

Questo racconto può insegnarci alcune cose.

In primo luogo, che si può paralizzare una persona, ridurla l'impotenza, semplicemente non dandole fiducia, buttandole addosso il peso di un giudizio preconcetto. Quante energie soffocate, quanti scoraggiamenti, quanta gioia distrutta dai nostri giudizi decisi e inappellabili su coloro che crediamo di conoscere!

Troppe volte, nello sguardo che rivolgiamo agli altri, non c'è posto per la speranza...

Ma c'è un altro insegnamento che dobbiamo raccogliere. Anche per parlare a noi, Dio non si serve di gente fuori dal comune, ma di persone qualsiasi, in cui dobbiamo riconoscere la presenza imprevedibile del suo inviato. L'ospite, il vicino, l'ammalato, lo straniero, l'amico, il nostro prossimo insomma: l'incontro con l'altro può essere un momento di grazia, se il nostro cuore è aperto e disponibile. Per manifestarsi, davvero Dio ha bisogno degli uomini.

E quando chiama noi come cristiani a dare il nostro annuncio e la nostra testimonianza? In genere ci lasciamo bloccare dalla paura, dalle difficoltà, da tante situazioni di disagio umano o di relazione. Forse ci aspetteremmo che fosse tutto facile. Il profeta Ezechiele, di cui ci ha parlato la Bibbia e soprattutto Gesù ci fanno vedere che la strada del "profeta", di chi parla a nome di Dio, non è facile: c'è l'incomprensione, la contrapposizione, la persecuzione. Ma non bisogna scoraggiarsi... Dice il Signore a proposito di Ezechiele: "Ascoltino o non ascoltino, almeno sapranno che un profeta si trova in mezzo a loro".

Di Gesù nel vangelo si dice: "Si meravigliava della loro incredulità. Percorreva i villaggi, insegnando".

Ci può essere in questo addirittura un piano di Dio. L'apostolo Paolo ripensando alla sua opera di evangelizzatore dice: "Perché non montassi un superbia, mi è stata messa una spina nella carne (altre volte enumera le tante difficoltà incontrate...). Ho pregato il Signore che mi liberasse. Egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. Mi vanterò ben volentieri allora delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole è allora che sono forte."

S. Paolo poteva esprimersi così perché viveva questa adesione profonda a Cristo. Noi non possiamo presumere, ma certamente impariamo che le difficoltà non devono bloccarci, che le sofferenze possono essere terreno concimato dove si sviluppano i semi della Parola di Dio e del bene che intendiamo promuovere.

Un'ultima cosa: Noi sappiamo accogliere Cristo, ovunque si compiace di avvicinarsi a noi, nei luoghi e nelle persone anche più ordinari, più semplici, anche dove non penseremmo di incontrarlo?