Omelia (14-09-2010) |
Il pane della domenica |
Dio ha tanto amato il mondo! Bisogna che il Figlio dell'uomo sia innalzato Diciamo "croce" e vogliamo dire "dolore". Diciamo "Crocifisso", ma dobbiamo dire "amore". È proprio così: nella croce di Gesù dolore e amore sono inseparabili, come le due facce di quel patibolo a forma di Tau su cui è inchiodato il Crocifisso: quella croce dice "dolore" - il dolore più atroce e straziante che mai sia stato sofferto sulla terra - ma mai come in quel 14 di nisan dell'anno 30 dell'era cristiana "dolore" ha fatto rima baciata con "amore", l'amore più grande, più forte, più puro che mai sia stato espresso nella storia dell'umanità. 1. Ma chi è il soggetto di questo amore? La risposta è ovvia: è Gesù che "ci ha amati e ha dato se stesso per noi" (Ef 5,2), ma poiché ci ha amati con amore universale e personale, cioè ci ha amati tutti e ciascuno, allora Paolo può declinare al singolare lo stessissimo versetto appena citato, e scrivere ai Galati: "mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20). E però, se rileggiamo il vangelo appena proclamato, ci rendiamo conto che il soggetto dell'amore che si esprime all'ennesima potenza sulla croce, è il Padre: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16), dove la parola "Dio" significa - come abitualmente nel NT - "Padre" e l'aggettivo "unigenito" sarebbe meglio renderlo con la traduzione rivista della CEI "l'unico", espressione che - come vedremo -rinvia con un'allusione finissima al sacrificio di Abramo (Gn 22,16). Dunque non possiamo separare nella croce il Figlio e il Padre: l'uomo non separi ciò che in Dio è unito! E noi crediamo che Dio è uno e unico perché in lui Padre e Figlio sono "uno" (Gv 17), al punto che "chi vede il Figlio, vede il Padre" (cfr. Gv 14,9). Questa unità è talmente stretta e forte che neanche la croce la può spezzare. È vero: al sopraggiungere dell'ora nona sul Golgotha il Figlio sperimenta l'abbandono del Padre, si sente abbandonato affettivamente, ma non lo è effettivamente, anzi l'ultima volontà di Gesù sulla croce - per cui si lascia spremere fino all'ultima goccia di sangue - è che i suoi discepoli accolgano finalmente il messaggio capitale di tutto il suo insegnamento e che egli ha ripetuto fino all'ultima cena: "il Padre vi ama!" (Gv 16,27). Detto in altre parole: per Gesù non c'è offesa più grave che lo possa ferire, non c'è colpo mortale che lo possa colpire al cuore più di questo: pensare che, sì lui, Gesù, ci ha amato fino al vertice supremo dell'amore, ma il Padre se ne sarebbe rimasto inerte e impassibile o addirittura indifferente nel vedere il Figlio morire sulla croce... 2. Volgiamo "lo sguardo a colui che è stato trafitto" (Gv 19,37) e prendiamo di petto la domanda: non è proprio la croce l'obiezione più inquietante contro la paternità di Dio? Il polemista pagano Celso l'aveva formulata nel II secolo d.C. con sferzante ironia: "Che razza di padre è questo Dio che non ha potuto salvare suo figlio dal supplizio più infamante?". Si concentra in questa obiezione tutto il rifiuto di Dio che viene dal dolore innocente: o Dio non può liberarci dal male o non lo vuole; se non lo può, allora non più Dio, cioè "onnipotente"; se non lo vuole, allora non più Padre. Proviamo ora a guardare la croce non dal basso, ma dall'alto, dalla prospettiva del Padre, e vi leggeremo scritta a lettere di sangue una sola parola: Amore. Infatti il Padre non se ne sta impassibile ad attendere che il Figlio gli presenti il prezzo del nostro riscatto, per potersi finalmente riconciliare con noi. Non è un Dio arrabbiato a... morte, che si placherebbe solo alla vista del sangue del Figlio. Un mostro così crudele e sanguinario sarebbe solo degno di stare nel pantheon degli dei "falsi e bugiardi": come riconoscere in lui il volto di Gesù di Nazaret? Anzi il Padre è talmente coinvolto nella sofferenza del Figlio che è proprio lui il primo a pagare il prezzo della nostra liberazione facendoci dono del suo bene più prezioso, appunto il Figlio. Afferma s. Paolo: il Padre "non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi" (Rm 8,32); come a dire: non se lo è risparmiato, non l'ha tenuto per sé come un tesoro geloso... Anche questa espressione paolina richiama il sacrificio di Isacco, quando Dio riconosce che Abramo ha superato la prova e gli dice: "non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio" (Gn 22,16), con la differenza che ad Abramo è stata chiesta solo la disponibilità a lasciarsi privare del figlio, mentre Dio Padre "ha dato" effettivamente il suo Figlio, l'unico (Gv 3,16). Insomma il Padre è colui che "fa" il sacrificio del Figlio, nel senso che fa il grande sacrificio di rinunciare a lui e di consegnarlo alle nostre mani omicide. Certo, il dolore di Dio non è del tipo del dolore nostro: Dio Padre non fa l'offeso, non si sente colpito nell'orgoglio paterno, in ragione dell'attaccamento a se stesso; soffre unicamente perché il nostro male fa male a noi, non a lui. Infatti il nostro peccato non offenderebbe Dio se, per assurdo, non facesse del male a noi, come scrive s. Tommaso: "Dio viene offeso da noi in quanto operiamo contro il nostro proprio bene". 3. Il frutto di questa festa della Esaltazione della Croce è quello di non leggere la croce... a metà, al massimo come rivelazione del Figlio. La croce è anche svelamento del Padre. Ma per ottenere questo frutto dobbiamo affidarci alla grazia dello Spirito Santo, che invochiamo con le parole del Veni Creator: "fa' che per mezzo tuo conosciamo il Padre (per te sciamus da Patrem)"; "fa' che conosciamo il cuore del Padre". Allora arriviamo alla "sapienza della croce" che faceva pregare la piccola Nennolina (Antonietta Meo) - una bambina morta a sette anni, in concetto di santità - con queste parole: "Caro Gesù, io sopra al calvario ci voglio stare proprio con tutto il mio amore, e per fare la tua volontà. Caro Gesù, dì a Dio Padre che mi voglio abbandonare nelle sue braccia e anche nelle tue... Caro Gesù, tanti saluti, baci e carezze dalla tua Antonietta". Se non guardiamo così alla croce di Gesù, non possiamo nemmeno guardare nella giusta prospettiva alle nostre croci e a quelle delle persone care, e allora corriamo la terribile tentazione di covare un rancore sordo contro Dio a causa del dolore che abbiamo dovuto sopportare o a cui abbiamo dovuto assistere impotenti. Mentre solo la fede ci permette di scorgere sopra la croce il Padre che fa con noi come faceva con il Figlio: ci avvolge con il suo abbraccio, ci sostiene sul letto del dolore, impaziente di poter asciugare le lacrime dai nostri occhi e di farci entrare nella sua gioia. Il sentimento che deve prevalere al termine di questa contemplazione del Padre "che ha tanto amato il mondo" e della sua misteriosa ma reale sofferenza proprio come "Padre", è quello di una commossa gratitudine. La vogliamo esprimere con le parole di s. Agostino: "Quanto ci hai amato, o Padre buono! ‘Non hai risparmiato il tuo proprio Figlio, ma lo consegnasti per noi empi!'. Quanto ci hai amato!". Commento di mons. Francesco Lambiasi tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi" Anno C Ave, Roma 2009 |