Omelia (15-08-2010) |
Marco Pedron |
Donne che danzano e uomini che lottano Oggi la chiesa celebra la festa dell'Assunzione di Maria in cielo: celebriamo Maria, una di noi, già arrivata in anima e corpo alla meta dove tutti noi un giorno arriveremo. Anche Gesù, vero uomo, è asceso al cielo, ma in quanto figlio di Dio potremmo sentirlo diverso da noi. Maria no, Maria è come me e come te. Allora questa festa è una grande speranza, una grande forza per la nostra vita: non c'è da aver paura, non c'è da temere, perché andiamo verso la luce, verso qualcosa di buono; non c'è da aver paura perché ciò che ci aspetta è qualcosa che ci realizzerà, che soddisferà tutte le nostre nostalgie e i nostri desideri profondi; non c'è da aver paura perché le Grandi Mani di Dio ci stanno aspettando e, qualunque sia la nostra vita e il nostro percorso, stanno per abbracciarci e per far festa: eravamo così tanto attesi, così tanto aspettati (15, 11-32)! Il vangelo ci presenta l'incontro di due donne. Entrambe sono uscite dalle loro posizioni per andare verso qualcosa che non sanno, che è ancora oscuro, buio, ma che chiede di nascere. Maria si è messa in viaggio (1,39); Elisabetta era sterile e avanti negli anni (1,7). Entrambe hanno un mistero, un figlio, un progetto da partorire; c'è qualcosa di informe in loro che chiede spazio, chiede di prendere forma nelle loro vite. I loro nomi sono il segno della loro vita: Elisabetta "Dio sazia" e Maria "acque feconde, gravide di vita" sono non solo i loro nomi ma anche il loro destino, la loro vocazione. Ma anche Adamo, simbolo di tutti gli uomini, ha inscritto nel suo nome il suo compito di generare: perché Adamo (a-d-m) è la porta (d) della madre (a-m). Il compito di ogni uomo allora è essere madre, cioè dare alla luce ciò che ha dentro, dare forma a ciò che è informe, far nascere, partorire il mistero che contiene in sé. La chiamata per tutti noi è quella di generare la nostra anima, di far nascere il Dio che ci abita, che chiede spazio in noi, che chiede di vivere nella nostra vita. Non so cosa mi abita, non so dove mi porterà; come non conosco il volto di mio figlio, come lo ricevo come un dono che accoglierò incondizionatamente, al di là di come sarà, così sono chiamato a prendermi cura del "figlio", del mistero che vuole nascere in me. Sarò padre e madre non tanto se avrò figli naturali ma se saprò generare il mistero di Dio che chiede di nascere in me. Sarò padre e madre se sarò servo rispetto a questa gravidanza, se la rispetterò, se non vorrò deciderla io, se non mi attaccherò alle mie idee sulla mia vita, ma la accoglierò per come lei si presenterà. La strage degli innocenti non è tanto un fatto storico, ma è ciò che accade ogni qualvolta il nostro mondo interiore non viene dato alla luce, ogni qualvolta si rifiuta la nascita a ciò che deve nascere, si rifiuta la vita a ciò che deve vivere. Quando l'uomo non genera il Figlio dell'Uomo (il Dio, il progetto inscritto in sè) allora si compie questa strage; ogni qualvolta l'uomo si dimentica dell'anima, ogni qualvolta l'uomo vive disinteressandosi di ciò che ha dentro, ogni qualvolta l'uomo vive presumendo dal Dio che ha in sé compie delle terribili tragedie. I nostri figli naturali muoiono lungo le strade per corse folli, nelle discoteche tra stordimento e droghe, nelle case tra depressioni e senso di vuoto perché noi genitori di ruolo, ma incapaci di generare, non siamo stati in grado di generare il nostro mondo interiore, perché noi li abbiamo privati delle radici, perché noi abbiamo tagliato loro le gambe alienandoli dalla loro anima e dal loro profondo. E l'esterno è soltanto l'oggettivazione dell'interno. Io ho un segreto, un "figlio" che vuole nascere. Io ho qualcosa da dire, da far nascere, da mettere al mondo; io non sono qui per sbaglio: lo sarò stato, magari, per i miei genitori, lo sarò per la società, ma non lo sono per Dio. Tutta la mia vita ruota attorno a questa fede: crederci o non crederci. Tutta la mia felicità starà nella scelta tra dar luce o tenere nel buio tutto questo. A volte il tempo di gestazione è di nove mesi, a volte di quarant'anni; a volte il parto è semplice e naturale, a volte il parto è lungo, doloroso: un travaglio. Ma c'è qualcosa in me che viene da più lontano di me, che è mio ma che non è mio, che mi abita ma che non possiedo. C'è un "figlio" che vuole nascere! Maria ed Elisabetta si benedicono, cantano, danzano, sono piene di vita perché comprendono che attraverso di loro si sta compiendo qualcosa che le supera, qualcosa di più grande. Il mistero sta prendendo corpo, sangue, forma in loro. Loro si sono fidate, gliel'hanno permesso, e adesso ciò che era nascosto, oscuro prende volto e nome. Poi Maria canta il Magnificat. Certamente Maria non ha mai detto, né scritto il Magnificat, che è un testo, un inno liturgico della prima comunità cristiana, ma esprime un lato importante di Maria. Maria non è solo l'umile donna, la serva fedele al Signore, tutta obbediente e passiva a Dio. Il Magnificat è un inno di lotta contro l'oppressione e per la giustizia. Quando leggo questo canto sento un'onda d'urto verso tutte le falsità e le ipocrisie, sento l'indignazione per quei rapporti di potere e di oppressione che vedo attorno, sento il desiderio di battermi contro le strutture d'ingiustizia. Maria qui è più vicina a Giovanna d'Arco che all'umile serva sempre in remissivo ascolto. La mia fede non è solo cantare le lodi nella liturgia della chiesa, la mia fede deve scendere nelle piazze, deve protestare contro il sistema economico iniquo che riduce l'occidentale ad un robot e l'africano alla fame; deve dire "no" e scioperare e trovare strumenti di protesta non violenti contro lo sfruttamento telefonico (gli sms costano 1 centesimo, mentre noi li paghiamo 15 centesimi), deve trovare forme di aggregazione e di unità come la banca etica o il mercato equo-solidale o altro. Maria mi spinge a lottare, a schierarmi contro l'ingiustizia, non prendendo mentalmente posizione, ma scendendo giù nelle strade, intervenendo di prima persona e spendendo la mia vita per ciò che dico di credere. Un uomo che non lotta per le proprie idee o non vale l'uomo o non valgono le idee. Per me uomo maschio, poi, è un pugno secco allo stomaco: "Ma che uomo sei? Ma guardati: per cosa lotti? Puoi chiamarla lotta avere un corpo muscoloso, scolpito, un auto sfolgorante, un'immagine da esibire? Ti distendi davanti la tv, una slot machine, un computer e poltroni per ore; non sai mettere la tua maschilità in gioco per qualcosa di sociale e ti definisci uomo? Dov'è finito il tuo lato maschile, selvaggio, l'eroe che c'è in te, il William Wallace, il Gandhi, il Gesù, l'uomo che si batte per ciò che crede, l'uomo che è disposto a pagare sulla sua pelle e di persona, che si espone, che rischia, che non si piega per interesse o vantaggi? Dov'è la tua energia?". Il Magnificat fa irrompere la voglia di mordere la vita, di provare a fare qualcosa, di plasmare almeno un po' questo mondo, di agire, di trasformare la mia fede in prassi. Sacrificium viene da "sacrum facere": è la disponibilità al sacrificio, la capacità di donare e di offrire qualcosa che sia sacro. Il Magnificat contatta la mia identità profonda di uomo-maschio che non vive né per il denaro né per il potere né per il sesso né per il successo, ma per la verità, per la voce di Dio, per incanalare l'energia maschile in maniera appassionante, combattiva e per qualcosa che sia al di sopra degli interessi personali o di parte. Il brano del vangelo è contrassegnato da una gioia irrefrenabile: le donne si salutano, (40), il saluto smuove il sentimento e riempie di vita (41); Elisabetta urla (42-45), Maria canta (46-55). A ben pensarci queste due donne non hanno proprio niente di cui rallegrarsi, gioire (o comunque noi vivremmo così quella situazione!): Zaccaria è stato punito ed è muto e sua moglie Elisabetta, anziana, è incinta; Maria è incinta senza conoscere uomo e deve affrontare il giudizio della gente, il pericolo della morte per lapidazione, l'onta di essere incinta prima del matrimonio, le perplessità di Giuseppe e deve fidarsi, basandosi sulle parole di un angelo, che quel figlio che aspetta è il Figlio di Dio. Non c'è proprio niente per cui stare allegri, non c'è proprio nulla da cantare, da danzare... Ma queste sono donne la cui caratteristica è la totale assenza del drammatico. Maria non drammatizza, non si dispera (pur essendocene motivo), non si angoscia e così annulla il dramma della situazione (che drammatica lo è!). Quante volte nella nostra vita il drammatico abita i nostri giorni: allora sembra la fine, sembra la cosa peggiore del mondo, sembra la cosa più grave che ci possa essere e la disgrazia più grande che ci possa capitare. Tua figlia è rimasta incinta ma non è ancora sposata: dramma. Il tuo vicino di casa ha sparlato di te in paese: dramma. Tuo figlio è stato bocciato a scuola: dramma. Un amico prete si è sposato: dramma. Un piccolo battibecco in ufficio, uno che ti ha fatto uno sgarbo, uno che ti "è passato davanti": dramma. Mi viene cambiata la mansione al lavoro, arriva un nuovo collega, cambio di parrocchia: dramma. Succede un inconveniente con l'auto, si brucia qualcosa finché cucinavo: dramma. Alcune persone vivono la vita in maniera drammatica, angosciate, disperate, un po' perché lo vogliono loro. Ogni situazione viene amplificata, ingigantita; un problemuccio diventa la fine del mondo, una difficoltà diventa l'irreparabile, l'irrisolvibile. Tutto è problema, tutto è angoscia, tutto è grave. Un giorno mia madre ebbe un attacco isterico perché presi un brutto voto a scuola (cosa che succedeva raramente): "Gravissimo!", mi disse. Ma che gravissimo, vediamo di non ingigantire la realtà. E ci stette male per molti giorni. Quante volte si sente dire in giro: "Non potevi farmi una cosa peggiore; questa cosa è imperdonabile; è tragico ciò che hai fatto". Di fronte alla vita c'è un'esasperazione delle situazioni, siamo drastici, siamo eccessivi. Così ogni giornata sembra lo sbarco di Normandia, un pericolo, un'ansia terribile, un'impresa titanica. Vivendo così anche un dosso sembra l'Everest: ma che vita è? Ma perché dover distruggersi sempre dalla fatica? "Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai; la fiamma non ti potrà bruciare; poiché io sono il Signore tuo Dio, il tuo Salvatore... Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo" (Is 43,1-4). Maria ed Elisabetta sono donne totalmente donate al Signore della Vita, perché hanno saputo vedere ogni istante non con i loro occhi ma con gli occhi di Dio. In contesti e avvenimenti così duri e ostici non sono rimaste nella periferia dei fatti, nel bordo, guardando solo ciò che si vedeva con il primo sguardo, la prima impressione, scorgendone solo l'orrore, la difficoltà o la durezza. Con-fidavano in Dio e si sono abbandonate a Lui e quando tutto sembrava negativo hanno continuato a confidare e a fidarsi. E quando tutto sembrava irreversibile hanno continuato a lasciar fare a Lui che da lassù vede molto meglio di noi. E non si sono date troppo pena, non hanno drammatizzato le situazioni: magari non capivano (2,19) ma sapevano che Lui sapeva tutto e questo bastava loro per non angosciarsi. Donne che si sono fidate, donne che si sono sentite amate, donne che hanno detto: "Avvenga di noi quello che tu vuoi, ci sei Tu, non c'è d'aver paura" (1,38), donne, insomma, che hanno con-fidato in Dio e non in se stesse o nell'apparenza. E non drammatizzando neppure situazioni realmente complesse, difficili e articolate, hanno vissuto la danza della vita, hanno potuto cantare di gioia, hanno potuto essere piene di felicità. La gioia della vita nasce da questo sentirsi condotti da Dio, da qualcosa di più profondo. Maria dev'essere stata una donna piena di difficoltà (il fatto stesso di avere come figlio uno come Gesù dev'essere stato un bel problema per lei!) ma può gioire perché può prendere le distanze dalle cose, può lasciare che i problemi stiano lì, può dimenticarsi per un po' di tutto ciò che la tormenta e gioire di ciò che accade. Gioire, celebrare una festa, lasciarsi andare alla felicità, vuol dire potersi distaccare e non ruotare sempre attorno a me stesso, ai problemi e alle difficoltà, e poter vedere tutto da un punto di vista diverso. Quando torno a casa dal lavoro devo staccarmi da tutte le beghe vissute prima, altrimenti ruoto sempre attorno a me, non c'è spazio per altro. Quando qualcosa non va devo staccarmi dal pensiero fisso su come finirà, su che soluzione avrà, su cosa io posso fare, sulla paura che mi incute: devo lasciarla lì, la prenderò a suo tempo. Se Maria non si fosse staccata da tutte le sue difficoltà non avrebbe potuto che essere una donna angosciata, isterica o depressa come molte del nostro tempo. E invece sapeva prendere le distanze dai problemi; e invece sapeva fidarsi di ciò che non capiva; e invece sapeva guardarsi da altri punti di vista e per questo cantava e danzava. Sappiamo tutti che nella vita c'è dolore. Ognuno di noi lo ha provato per la perdita di qualcuno che ama, per la perdita delle proprie capacità a causa di un incidente o una malattia, per la delusione delle proprie speranze. Ma come il giorno non esiste senza la notte, né la vita senza la morte, la gioia non può esistere senza il dolore. Nella vita c'è sofferenza così come piacere, ma possiamo accettare la sofferenza finché non ci siamo intrappolati dentro. Possiamo accettare la perdita se sappiamo di non essere condannati a soffrire per sempre. Possiamo accettare la notte perché sappiamo che il giorno spunterà e possiamo accettare il dolore quando sappiamo che tornerà la gioia. Ma la gioia può sprigionarsi solo quando il nostro spirito è libero. Troppe persone sono state spezzate; troppe persone sono così incatenate nei loro pensieri drammatici e persecutori per cui non c'è e non ci sarà spazio per la gioia. Troppe persone sono incapaci di fidarsi non solo di Dio, ma perfino di chi li ama, dei propri sentimenti o della vita che hanno dentro. Molte persone non si sarebbero mai sognate in situazioni simili ad agire come hanno fatto Maria o Elisabetta: "Non è opportuno; non sono mica pazzo; non è conveniente; ma che modi sono questi!". Ma la gioia è il potersi abbandonare al flusso dei sentimenti, allo stupore che si vive; gioia è poter piangere di felicità quando qualcosa ci tocca il cuore, quando qualcuno ci fa sentire che ci ama davvero, quando ci sentiamo avvolti dalla bellezza della natura, dalla possanza delle montagne o dalla trasparenza del mare; gioia è potersi commuovere come un fiume in piena quando tuo figlio compie i primi passi, quando sai di essere incinta, quando chi ami riesce, quando tu riesci. Gioia è benedire, vedere le cose tutte da un'altra prospettiva, quella di Dio, sentire il mondo amico, sentire gli animali nostri fratelli in questo creato e le piante nostre sorelle di questa natura; è benedire la Vita per la mia vita, ringraziarla per tutto ciò che è successo, cantare la grandezza della mia vita, essere felici di quello che si è e che è stato. Gioia è cantare insieme, è cantare di sera, di notte o attorno ad un fuoco. Gioia immensa è abbracciarsi e guardarsi con così tanta intensità negli occhi che le anime si riconoscono. Gioia è urlare la forza e la bellezza dell'essere vivi, è urlare il proprio nome nel silenzio della montagna, è sentirsi pieni di immenso e lasciarlo andare con tutta la forza che ha. Gioia è la danza di sentirsi parte di questo unico grande movimento che si chiama vita; gioia è saper scorgere e farsi toccare e farsi coinvolgere dalla danza della pioggia o del vento. Gioia è lasciarsi portare. Per molte persone tutto questo è sentimentale, tutto questo è disdicevole. In realtà sono incapaci di lasciare che i sentimenti, che la vita fluisca in sé come l'acqua di un fiume, che passa sempre ma che non si ferma mai. Sono troppo rigide e temono tutti questi sentimenti, temono la forza della vita: saranno condannate, si condanneranno a non sperimentare la gioia e l'estasi della vita. Per sperimentare gioia bisogna fidarsi, bisogna permettere che ciò che vive in noi ci porti, ci conduca: io devo solo lasciare che il sentimento mi porti. Ma per molte persone abbandonarsi è terrificante. In ebraico la parola per esprimere gioia è gool; e gool indica il movimento circolare sotto l'influenza di una violenta emozione: è la danza, è l'essere presi da ciò che si vive e lasciarsi portare. Tagore dice: "Non è la costrizione il richiamo finale per l'uomo, ma la gioia, e la gioia è dovunque. E' nell'erba che ricopre la terra, nell'azzurra serenità del cielo, nell'instancabile esuberanza della primavera, nella silenziosa astinenza dell'inverno, nella carne vivente che anima la nostra struttura corporea, nel perfetto equilibrio della figura umana, nobile ed eretta, nel vivere, nell'esercizio di tutti i nostri poteri. Solo colui che sa che il mondo è una creazione della gioia ha raggiunto la verità finale". Allora, come queste donne, io vorrei - ci posso provare - danzare la vita, abbandonarmi a Dio, fidarmi, lasciarmi trasportare, un po' come le foglie si abbandonano al vento e nel loro essere condotte compiono la loro danza. Chi vive così canta, danza, urla di gioia, benedice, è assunto al cielo della felicità già in questa terra. Pensiero della Settimana Si trasforma solo ciò che si accetta. |