Omelia (31-08-2003) |
don Elio Dotto |
Le accuse agli altri e la paura per noi Accusare gli altri è un esercizio che noi compiamo volentieri. Accade infatti facilmente che pronunciamo parole di giudizio e di condanna nei confronti degli altri: soprattutto quando gli altri paiono davvero colpevoli, e la legge sembra essere dalla nostra parte. Certo, queste nostre accuse quasi mai sono gridate ai quattro venti: spesso esse sono soltanto mormorate, magari alle spalle delle persone che accusiamo. Eppure proprio così il giudizio che pronunciamo ferisce, e quasi annulla coloro che sono coinvolti. Anche i farisei e gli scribi del Vangelo avevano questa facile inclinazione all'accusa. La loro opposizione a Gesù ci è nota, ma colpisce sempre l'arroganza del loro modo di fare. Arrogante è, ad esempio, la domanda che rivolgono a Gesù nel Vangelo di domenica (Mc 7,1-8.14-15.21-23). «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Appunto arrogante appare questa domanda: non tanto per il suo contenuto – il riferimento alla tradizione infatti era sacro anche per Gesù – quanto piuttosto per il tono di accusa che caratterizza queste parole: «perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi...?». Una simile arroganza rivela come in fondo qui i farisei e gli scribi non sono preoccupati tanto della tradizione ricevuta: essi sono invece preoccupati della loro immagine, che rischia di essere messa in discussione dal comportamento di Gesù e dei suoi discepoli. Esattamente in tal senso essi sono ipocriti: perché nascondono la cura della loro immagine dietro la maschera della fedeltà alla tradizione. Così appunto accade anche per noi, quando accusiamo con facilità gli altri. Molto spesso non sono gli errori altrui a darci fastidio; e neppure è l'altrui trasgressione della legge a farci indignare. Sovente invece noi accusiamo gli altri per difendere noi stessi, per salvaguardare la nostra immagine, per non metterci in discussione. E infatti accade di frequente che la voglia di accusare scatti non nei confronti di chi sbaglia, ma nei confronti di chi ha ragione; nei confronti cioè di colui che ci fa sentire in torto, di colui che – con l'eccesso della sua giustizia – appare quasi come una minaccia alla nostra ingiustizia. Proviamo soltanto ad esaminare un po' da vicino quelle quattro o cinque situazioni della settimana trascorsa in cui ci è capitato di esprimere giudizi severi – o almeno di pensarli: quanti di essi nascevano dalla paura di aver torto? Se ci pensiamo bene, vediamo quanto sono interessate le nostre accuse, e quanto sono fragili le nostre supposizioni. Proprio una simile ipocrisia viene smascherata da Gesù: «questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me». È necessario allora chiedere il dono di un cuore puro, di un cuore che la smetta di giocare in difesa, e impari finalmente quella lealtà che rende liberi e sereni. |