Omelia (07-09-2003) |
don Elio Dotto |
La fragilità delle parole umane Il Vangelo di domenica (Mc 7,31-37) ha per protagonista un sordomuto. Al tempo di Gesù i sordomuti erano tanti. Oggi per fortuna sono diventati più rari: le conoscenze mediche e le terapie consentono spesso di porre rimedio a questa infermità, che una volta appariva invece ineluttabile e lasciava una gran pena in tutti coloro che con tali persone avevano a che fare. La medesima pena tuttavia – o almeno una pena simile – suscitano in tutti noi quelle forme di sofferenza – specie se nervosa – che rendono la parola estremamente stentata e fragile. Questa pena esprime certo la nostra compassione; ma dietro di essa si nasconde anche una certa apprensione a proposito di noi stessi. In effetti, davanti ad una persona muta diventa improvvisamente facile misurare la fragilità della nostra stessa parola. Nella persona che non riesce ad intendere e che geme senza riuscire a dire, ognuno di noi intuisce all'improvviso quanto le sia simile: quanto sia egli stesso sordo e presto rassegnato a non capire le parole dell'altro; quanto sia muto e subito dubbioso circa l'effettiva capacità propria di farsi davvero intendere. Il sordomuto appare in tal senso come messaggero di una verità pericolosa, che minaccia ogni normalità della parola umana. Ma che cosa chiede la gente del Vangelo per quel sordomuto? «Lo condussero a lui, perché gli imponesse le mani». Forse la pena di quella gente non riesce subito a chiedere la guarigione. Chiedono che gli imponga le mani, che lo benedica, che in qualche modo confermi su di lui quella misericordia di Dio dalla quale egli sembra escluso, che provveda insomma a lui, perché nessun altro sa come provvedere. I gesti che Gesù fa con le dita e la saliva sono con tutta probabilità quei gesti di conforto che la gente si attendeva da lui: servono soltanto ad esprimere l'accoglienza da parte di Gesù della loro domanda. Ma poi il miracolo avviene in altro modo: «guardando verso il cielo, emise un sospiro», o anche un gemito, una supplica senza parola; un sospiro muto come muto era quell'uomo. Anche Gesù è «contagiato» dal suo male, egli che «ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17). Quel sospiro muto di Gesù è una preghiera – è rivolto verso il cielo – una preghiera che non riguarda soltanto quel sordomuto, ma riguarda tutti noi. Quella preghiera muta infatti ci dice che è possibile imparare ad intendere le parole degli altri; come pure è possibile riuscire a comunicare le proprie parole. Soltanto è necessario guardare prima verso il cielo, per riconoscere quella parola celeste che dà senso e speranza a tutte le parole terrestri. |