Omelia (14-09-2003) |
Paolo Curtaz |
Voi chi dite che sia, Gesù? Questa nostra domenica rappresenta senz'altro un nodo della tela dell'anno litugico, uno di quei punti su cui non si può passare con leggerezza, perché Gesù ci fa passare da un piano di riflessione superficiale (a cui spesso adeguiamo la nostra fede ridotta a moralità o a moralismo) a uno scontro diretto con ciò che siamo nel profondo. Il contesto del Vangelo di Marco lo sapete, ormai: l'evangelista vuole dimostrare che Gesù è Figlio di Dio, e qui, a metà del suo Vangelo, dopo miracoli, prodigi, discorsi, moltiplicazione dei pani, pone l'interrogativo al suo lettore. Ci immaginiamo la scena. I dodici, gongolanti, hanno tra le mani un futuro di grande carriera politica e religiosa: Gesù piace, è credibile, ha successo, gratifica. Ma Gesù non ci sta, vuole di più. Ed ecco la domanda: "Chi dice la gente che io sia?". Allora come oggi si parla molto di Gesù, sui giornali, nei dibattiti, tra amici. Chissà perché la fede è quell'argomento che emerge timidamente, quasi con vergogna, alla fine di una cena tra amici. E Gesù ci sta. Chi dice che sia, la gente? Le risposte le sappiamo: un grand'uomo, un uomo mite, un messaggero di pace. Tutto vero, ma ci si ferma qui: difficilmente si accetta la testimonianza della comunità dei suoi discepoli: Gesù è Cristo, Gesù è Dio stesso. No, meglio mantenersi nel vago e rassicurante convincimento che Gesù sia una personalità della storia da ammirare ma che nulla ha a che vedere con la mia vita, meglio gestire il rapporto con Gesù riducendolo a memoria storica, invece che ammettere un'inquietante Presenza. Gesù non ci sta e, a bruciapelo, pone oggi a ciascuno di noi la domanda: "Voi chi dite che io sia?". Già. E per me? Per me solo, dentro, senza l'assillo di dare risposte sensate o alla moda, senza la facciata e l'immagine da tenere in piedi? A me, nudo dentro, Gesù che dice? Quante risposte! Gesù allora diventa una speranza, una nostalgia, una tenerezza, la tenerezza del sogno dell'uomo che vorrebbe credere in un Dio vicino, che condivide, che partecipa. Oppure, attenti al rischio catechismo, abbiamo la risposta confezionata: "Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio". Già: bella affermazione ma così lontana dal cuore. La folla lo aveva riconosciuto il Messia. Così i discepoli, così gli apostoli, così la comunità di Roma a cui Marco indirizza il suo Vangelo. Ma in realtà? Gesù subito presenta ciò che significa essere Cristo: donarsi fino alla morte. E qui si resta sgomenti, attoniti, scandalizzati. Ma come... e allora un Dio onnipotente, efficiente, che intervenga a sanare le nostre malattie? Dov'è? Sicuramente c'è, ma dopo essere passato nella scandalosa logica della croce. Non dite che Gesù è Cristo se prima non siete saliti con Lui sulla croce. Non osate fare questa affermazione se prima non avete assaporato l'esagerazione e la sofferenza del dono, se prima la vostra vita non è stata arata e scavata dal solco della croce, amici, se prima non avete amato fino a star male, se il vostro cuore non è stato convertito dal dono della compassione. Questa croce che diventa misura del dono, giudizio sul mondo, unità di misura del nuovo sistema di amare il fratello. Anche Pietro e gli altri dovranno passare per il Golgota prima di entrare definitivamente nella dinamica del Regno. Isaia intuisce e profetizza questa nuova prospettiva di un Messia sofferente e Giacomo ci ricorda che la nostra fede non si ferma alle Parola ma diventa Gesto e che solo così testimoniamo di avere incontrato il Cristo Signore. Basta così, fratelli. Prendetevi il Vangelo e lasciatevelo entrare nel cuore e nella pelle, per poter affermare con verità che Gesù è davvero il vostro Signore. |