Omelia (14-09-2003) |
Paolo Curtaz |
Un amore da esaltare Avete ragione, scusate, sono un po' stanco da fine estate. Molti mi hanno scritto scaricando nelle loro tormentate mail sofferenza e dolore. Dio ci guarisce dentro, certo, ma perché tanta (inutile) sofferenza? Sembra aiutarci oggi la festa dell'esaltazione della santa croce che sostituisce la domenica. Una festa nata da un fatto storico: il ritrovamento della regina Elena, madre dell'imperatore Costantino, primo imperatore convertitosi alla fede, del luogo della crocifissione a Gerusalemme, luogo conservato con devozione dai discepoli durante tre secoli e lì, dopo lo scavo del sepolcro, il ritrovamento in una cisterna della presunta croce di Gesù con il titulum crucis. Grandissimo scalpore suscitò questa scoperta e le comunità cristiane si ritrovarono in un ventennio dall'essere perseguitate al vedere portata la croce trionfalmente a Costantinopoli. Ma per noi oggi, giunge l'occasione di una seria riflessione sulla croce. La croce non è da esaltare, la sofferenza non è mai gradita a Dio, toglietevela dalla testa, subito, quella tragica inclinazione all'autolesionismo che troppe volte crogiuola il cristiano nel proprio dolore pensando che questo lo avvicini a Dio. Religione che rischia di fermarsi al venerdì santo la nostra, perché tutti abbiamo una sofferenza da condividere e ci piace l'idea che anche Dio la pensi come noi. No, lo ripeto alla nausea: la felicità cristiana è una tristezza superata, una croce abbandonata perché ormai inutile e questa croce vuota – oggi - viene esaltata. La croce non è il segno della sofferenza di Dio, ma del suo amore. La croce è epifania della serietà del suo bene per ciascuno di noi. Fino a questo punto ha voluto amarci, perché altro è usare dolci e consolanti parole, altro inchiodarle a tre chiodi sospese fra cielo e terra. La croce è il paradosso finale di Dio, la sua ammissione di sconfitta, la sua ammissione di arrendevolezza: poiché ci ama lo possiamo crocifiggere. Esaltare la croce significa esaltare l'amore, esaltare la croce significa spalancare il cuore all'adorazione allo stupore. Davvero innalzato sulla croce (Giovanni non usa mai la parola "crocifisso" ma "osteso" cioè mostrato) Gesù attira tutti a se. Davanti a Dio nudo, sfigurato, così irriconoscibile da necessitare di una didascalia sopra la sua testa, possiamo scegliere: cadere nella disposizione o ai piedi della croce. Dio – ormai – è appeso, abissalmente lontano dalla caricatura che ne facciamo egli è li, donato per sempre. E al discepolo è chiesto di portare la sua croce, cioè non di sopportare le inevitabili sofferenze che la vita ci dona e che neppure al cristiano sono evitate, ma di portare l'amore nella vita, fino ad esserne crocifissi. La croce non è sinonimo di dolore ma di dono, dono adulto virile, non melenso né affettato. No: seriamente Dio ci ha presi sul serio, rischiando di essere uno dei tanti giustiziati della storia. Questa festa, allora, è per noi l'occasione di posare lo sguardo sulla misura dell'amore di un Dio che muore per amore, senza eccessi, senza compatimenti, libero e nudo di donare, osteso, amici, osteso. Questo – ora – è il volto di Dio. Allora ti rispondo, amico che scrivi urlando a Dio il tuo dolore: non troverai un muro di gomma, né un volto indurito ma – semplicemente – un Dio che muore con te. E potrai scegliere di bestemmiarlo e accusarlo ancora della nostra fatica oppure – che egli te lo conceda – restare stupito come quell'altro crocifisso che non sapeva capacitarsi di tanta follia. Tutto qui, tutto qui: la croce è l'unità di misura dell'amore di Dio. Sì, amici, c'è di che celebrare, c'è di che esaltare, c'è di che esultare. |