Omelia (14-09-2003)
mons. Antonio Riboldi
La Croce, Stazione di arrivo

"La croce, afferma il grande Paolo VI, è la stazione di arrivo dell'infinito amore di Dio per gli uomini. Per noi è morto. Parte dalla croce, per gli uomini, un'onda di bontà, che va a tutte le anime, per salvarle: in altre parole, nella croce si è compiuto il mistero della Redenzione".
E' lì infatti, che ciascuno di noi è costretto a leggere la verità della propria esistenza, fatta di speranze, di gioie, ma sempre accompagnata da angosce e tristezze. Vogliamo o no, tutti, senza distinzione, anche se a volte verrebbe la voglia di scaricarla dalle spalle perché pesa troppo, fino a toglierci non solo il respiro, ma anche l'amore alla stessa vita, la croce è come una componente della nostra vita. Non risparmia nessuno. Del resto, chi non porta nella carne della sua vita, le piaghe che la croce lascia inevitabilmente? Le abbiamo tutti...a cominciare da me.
"Non riesco a comprendere – mi diceva un giorno una persona, – la ragione per cui Dio, che è amore infinito, ci abbia fatto il meraviglioso dono della vita, fatta per la felicità, quasi annullando questa felicità con la croce quotidiana. Verrebbe voglia di dubitare che Dio ci ama."
Ricordo sempre la terribile notte del terremoto che colpì la valle del Belice nel 1968. Avevamo cercato di fare fiorire quel deserto, che era la comunità parrocchiale di S. Ninfa', affidata alle nostre cure. Ed in qualche modo il deserto, anche se con fatica, era tornato a fiorire, tanto che pochi giorni prima che il terremoto cancellasse il paese, il Vescovo, in visita pastorale, espresse la sua meraviglia così: "Godo nel vedere la bellezza di questa comunità che era prima la mia sofferenza. Dio veramente fa grandi cose e mostra che non è mai assente da noi..caso mai siamo noi assenti da Lui".
Guardando desolato, subito dopo il terremoto il paese annientato dalla furia del terremoto, guardando la stupenda Chiesa Madre, appena ristrutturata, un vero gioiello di architettura, totalmente in briciole, guardando verso il Cielo mi venne da dire: "Signore, spiegami cosa voglia dire che Tu ci ami e sei vicino". Stranamente, in un angolo della Matrice, appesa ad una parte rimasta in piedi, campeggiava una croce, miracolosamente sfuggita alla distruzione.
Il terremoto le aveva piegato un braccio che sembrava teso verso terra, non capivo se per rispondere alla mia domanda, o per dirmi che Lui non era scappato, ma da "quella croce" ci assicurava che era sempre vicino.
Oggi, festa della esaltazione della Croce, Gesù così risponde alle nostre domande sulla sofferenza: "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui" (Gv. 3,13-17).
Da queste parole di Dio splende la ragione della croce, o della sofferenza. Quando si ama sul serio, l'amore che è dono, chiede il sacrificio e quindi la sofferenza. Direi che i due bracci della croce su cui era appeso Gesù ed è appeso ancora oggi, un braccio è il dolore, l'altro è l'amore. Non si possono dividere senza cancellare le ragioni e le esigenze dell'amore, le ragioni e le esigenze del dolore. Un dolore senza amore è inferno. Quell'inferno che purtroppo soffrono tanti o fanno soffrire. Così come non esiste un amore che non si faccia sacrificio per chi si ama. Chi ama veramente sa che il dolore è il sale della vita, la luce della vita.
S. Paolo, mirabilmente, così descrive la croce: "Cristo Gesù pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini: apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte ed alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli e sulla terra: e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre" (Fil.2,6-11).
E' un linguaggio duro, se vogliamo, questo della croce: un linguaggio che cerchiamo a volte di sostituire con altro, che è quello effimero del mondo che non solo non cancella il dolore, ma allarga il fosso della disperazione.
I santi, i martiri, gioivano nel poter dare la propria vita tutta a Dio: certo che quel sublime gesto di amore, simile a quello di Gesù per noi, era il più sublime atto di amore si potesse compiere.
Ma basterebbe sapere guardare alla ferialità della vita di tanti, ma proprio tanti, che ogni giorno vivono soffrendo; a volte conoscendo la sola sofferenza. Sorridendo, un giorno, una persona, paralizzata dal dolore, e quindi costretta solo a soffrire mi diceva sorridendo, con un sorriso che ho visto raramente negli occhi degli uomini: "Sa Padre che considero questo letto come l'altare su cui lei celebra la S. Messa. Ed è bello sentirsi una cosa sola, con i piedi e le mani inchiodati a questo letto per sempre come Gesù. La mia vita su questo altare mi pare una continua Messa per i tanti che soffrono senza amore, o fanno soffrire negando l'amore. Ho come l'impressione che i miei piedi inchiodati e le mie mani siano così per dare ai suoi piedi che camminano tanto tra la gente e alle sue mani, cui si aggrappa tanta gente, tanto amore da fare sorridere di speranza chi lei incontra e comunicarle quel grande amore che Gesù continua a donare da quel costato aperto".
Vorrei che quell'amore che giunge da tante ma tante crocifisse per amore, arrivasse a tanti ma tanti che si sentono come piegati dal dolore, qualunque questo sia, e si riempisse il loro cuore di speranza.
Ho visto un giorno in un Chiesa un dipinto che rende bene la festa della Croce. Su una grande parete era dipinto un Crocifisso. Sotto la croce c'era un uomo che tende la sua mano verso il crocifisso: a sua volta il crocifisso tende la sua mano verso l'uomo. Non era chiaro se era il crocifisso a voler sostenere l'uomo o viceversa. Ma credo proprio che è Gesù a sostenere i crocifissi della terra...e sono tanti.
Come si è compiuto, scrive ancora Paolo VI, il poema, il dramma della Redenzione? Si è compiuto nel sacrificio, nell'accettazione del dolore, nella sfida al dolore, alla umiliazione, alla morte: si è compiuto per dei valori, dei fini, delle idealità superiori alla vita stessa: il sacrificio è una specie di bilancia e di classifica, è una scelta: cosa vale di più? Vale di più la mia vita, la vita umana, o vale di più la salvezza degli altri, la giustizia l'effusione della misericordia, la prova dell'amore?
L'amore vero si prova con il sacrificio, con la fedeltà che arriva al dolore, al dono di sé; si trova nell'estrema e paradossale misura che il Signore ha adottato per sé, morendo per gli altri, per la salvezza altrui..
Su un campo di battaglia, tra i più fieri e battuti dell'altra guerra, sul quale si sono perduti ventimila giovani – l'Ortigara – un giorno qualcuno ha pensato di mettere sopra una grande pietraia una croce; vi posero due tronchi di pino spogli e aridi e spezzati dalle bombe che avevano tormentato l'infelicissimo luogo. Le parole che vi furono apposte sono dell'inno di Venanzio Fortunato: "Nessuna selva ha prodotto un albero pari a questo, per la bellezza dei suoi fiori e dei suoi frutti".
E fissando la Croce di Gesù e le croci dei martiri di ieri e di oggi è bello confermare le parole del poeta.

Mons. Antonio Riboldi - Vescovo -

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