Omelia (14-09-2003)
don Fulvio Bertellini
"Nessuno è mai salito al cielo"

Ce ne accorgiamo quando saliamo un'alta montagna, sfidando la fatica, il freddo, il pericolo... che cosa ci spinge? Quale passione fa sì che uomini coraggiosi - o pazzi - affrontino la sfida di conquistare un monte da ottomila metri? Forse è la voglia di toccare il cielo. La stessa che ci fa costruire torri, grattacieli, campanili... anche la stessa che fece innalzare, nel racconto biblico, la torre di Babele.
Il cielo resta sempre là. Dio resta inaccessibile.- Juri Gagarin, il primo astronauta, disse: "Ho cercato Dio nel cielo, e non l'ho trovato". Credendo di fare professione di ateismo, non si accorgeva di alludere ad una profonda verità: Dio resta sempre al di là dei nostri sforzi per raggiungerlo.

"Fuorché il Figlio dell'Uomo, che è disceso dal cielo"

In effetti, è lui che ci raggiunge, è lui che discende verso di noi. E il movimento di abbassamento è duplice: primo, perché il Figlio di Dio si fa uomo; secondo, perché si china sull'uomo peccatore. E non è uno scherzo, o una passeggiata: in tutta la vita di Gesù lo vediamo andare incontro a chi ha bisogno, andare in cerca dei peccatori, rispondere alle critiche di chi si scandalizza, predicare fino a non avere più neanche il tempo di mangiare... Realmente Gesù, passo dopo passo, si fa carico dei nostri peccati, fino alla croce.

"Non per condannare il mondo"

Come c'è un crescendo nell'umiliazione di Gesù, nel suo chinarsi sull'uomo sofferente, così vediamo un crescendo nel peccato dell'uomo. Chiacchiere malevole, obiezioni maliziose, aperti contrasti, fino al complotto e alla morte. Il peccato dell'uomo si radicalizza contro Gesù, e meriterebbe un estremo giudizio di condanna. Ma non è così. La voce è trasformata in strumento di redenzione. Chi guarda a Gesù innalzato sulla croce può riconoscervi il suo peccato, ma anche l'offerta di perdono. Chi guarda con fede a Gesù crocifisso entra nell'ambito della vita eterna.

Bisogna che sia innalzato il Figlio dell'Uomo

La festa dell'Esaltazione della croce ci mette quindi di fronte al nodo fondamentale della nostra fede, e della nostra vita. Il crocifisso condannato e umiliato è un continuo richiamo al nostro agire pieno di presunzione e di orgoglio. Ci ricorda ogni giorno che non ci salviamo da soli, con le nostre buone azioni, che non siamo capaci di salire fino a lui, ma lui si china verso di noi.
Tutto ciò diventa per noi motivo di festa e di gioia. Una festa paradossale, che si raccoglie attorno alla croce, che era un patibolo, e diventa segno di vita, simbolo di condanna che si trasforma nel massimo segno del perdono.


PRIMA LETTURA

Il problema del popolo è l'incapacità di camminare con Dio. Nel libro dei Numeri la narrazione del viaggio nel deserto ha lo scopo di mostrare che, se il popolo si fida di Dio, avrà successo; quando invece si ribella, va incontro al fallimento e alla morte. Vediamo così che il primo e principale nemico del popolo è interno al popolo stesso, è la sua durezza di cuori.
"Perché ci ha fatti uscire dall'Egitto?". Il popolo rimprovera Dio per l'evento della liberazione. Invece di ringraziarlo, lo contesta. E' una perversione completa del senso della storia.
"Siamo nauseati di questo cibo...". Anche la manna, segno per eccellenza dell'amore provvidente di Dio che nutre e accompagna il suo popolo, viene rifiutata. Il popolo preferisce il cibo della schiavitù.
"Mandò serpenti velenosi". La mancanza di fede avvelena l'esistenza. Voltando le spalle al Dio della vita, si entra nel dominio della morte. E' necessario un segno, che permette di ritrovare la fede: il serpente di rame che Mosè innalza. Anche noi siamo feriti a morte dal nostro peccato, e rischiamo di trascorrere la nostra vita lamentandoci dei doni di Dio, senza riconoscere la sua presenza, sedotti da comode forme di schiavitù. Sapremo guardare al crocifisso per essere salvati?


SECONDA LETTURA

"Facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce". Questo brano si stacca dalla lettera ai Filippesi per la sua forma ritmica e solenne. Lo si ritiene generalmente un inno, che Paolo utilizza nel contesto di una esortazione all'unità e alla concordia. Difficile stabilire se si trattasse di un canto preesistente, di una composizione di Paolo, o di un semplice adattamento poetico. E' importante notare come ad un certo punto della sua esposizione l'apostolo esca dal linguaggio ordinario, e sconfini nella poesia e nel canto. Deve dire un qualcosa che va al di là dei limiti del linguaggio umano.
"Spogliò se stesso...". La prima parte dell'inno insiste sull'umiliazione di Gesù, con un crescendo che culmina con la morte di croce, la condanna a morte più infamante nel mondo antico.
Questo atteggiamento si contrappone radicalmente al peccato umano, fatto di sopraffazione, di pretesa, di orgogli, di disubbidienza presuntuosa.
"Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore". La seconda parte dell'inno insiste sulla glorificazione di Gesù, con la quale l'umiliazione acquista valore salvifico per chi è "in cielo, nella terra, e sotto terra...".
Il titolo di Signore è denso di risonanze: in ambito politico, nel mondo greco-romano, era un titolo imperiale; in ambito religioso, nel mondo ebraico, era l'appellativo divino, che sostituiva il nome di Dio dato sul Sinai, che non veniva mai pronunciato come forma di estremo rispetto. La glorificazione di Gesù deriva dalla sua umiliazione, con la quale estirpa alla radice il peccato.