Omelia (11-01-2008) |
Paolo Curtaz |
Gesù guarisce un uomo coperto di lebbra. Lo guarisce con gentilezza e garbo, lo tocca, cosa vietatissima per questioni sanitarie e religiose, stabilisce un contatto. Egli, provocato dal malato, vuole, desidera che quest'uomo ritorni alla sua vita di relazione. Gli chiede, poi, in gesto di obbedienza alla Legge, di andare dai sacerdoti che attestino l'avvenuta guarigione. Gesù non è un anarchico, non è venuto per distruggere le norme dei padri, ma per portare a compimento, e così agisce anche in questo caso. Gesù, però, fugge la folla di ammalati che lo cerca per guarire. Gesù non ama i miracoli, se può li evita, Egli sa che il miracolo è sempre ambiguo, crea una sproporzione tra chi chiede e chi potrebbe esaudire, Gesù non vuole essere considerato un guaritore o un guru, fugge la notorietà derivante dal gesto prodigioso. Dio vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che fa. Il miracolo è un segno, un gesto, una profezia, la conferma della validità delle parole, il segno inequivocabile che il Regno di Dio è giunto in mezzo a noi. E noi, cercatori di prodigi, assetati di miracoli, quando capiremo che il miracolo è la sconfitta della fede? Che quando Dio deve intervenire con un segno eclatante e prodigioso significa che la nostra fede è ormai spenta? Cerchiamo oggi, piuttosto, di vedere i tanti miracoli quotidiani che riempiono la nostra vita e chiediamo al Signore di guarirci dalla lebbra dell'ingratitudine! |