Omelia (04-07-2008) |
Paolo Curtaz |
Matteo era una persona realizzata: un pubblicano, un collaborazionista dell'Impero romano che appaltava le tasse, ricco e temuto. Era un traditore, quindi, un ladro perché faceva la cresta su quanto chiedeva; ben lontano dal modello del pio discepolo in voga presso i farisei: nella sua vita aveva osato, sfidato, minacciato, e ora, uomo senza scrupoli, realizzava i suoi sogni di potere seduto al banco delle imposte a Cafarnao, sulla strada che da Damasco portava al mediterraneo. Poi, un bel giorno arrivò il Maestro Gesù di Nazareth, ospite da Simone il pescatore, e lo chiamò. Cosa lo spinse ad alzarsi? Lo sguardo? Il sorriso? Vedere realizzato, in quello sguardo, tutto ciò che egli non osava neppure immaginare? Levi si alzò e fece festa, divenne discepolo. Matteo descrive la sua chiamata forse trent'anni dopo questi eventi, infilando la sua personale storia nel fluire degli eventi del vangelo che scrive per la sua comunità di giudeo-cristiani. E dice: "Ne è valsa la pena". Non rimpiange nulla, Matteo, anzi, si legge tra le righe la gioia profonda di questa scelta. Oggi, amici, ripensate a quando avete conosciuto il Maestro, distillate nella memoria gli anni di discepolato con lui, le fatiche, le gioie, le emozioni. E, nella preghiera, ancora dite al Signore: "Sì, Rabbì, ne è valsa la pena diventare tuo discepolo". |