Omelia (14-09-2008)
Paolo Curtaz


Quella di oggi è una festa nata da un fatto storico: il ritrovamento della regina Elena, madre dell'imperatore Costantino, del luogo della crocifissione a Gerusalemme. Quel luogo fu conservato con devozione dai discepoli durante tre secoli e ora vi sorge la Basilica del Santo Sepolcro.

La croce non è da esaltare, la sofferenza non è mai gradita a Dio, toglietevi dalla testa, subito, la tragica inclinazione all'autolesionismo tipica del cattolicesimo, inclinazione che crogiuola il cristiano nel proprio dolore pensando che questo lo avvicini a Dio. La nostra è una Religione che rischia di fermarsi al venerdì santo, perché tutti abbiamo una sofferenza da condividere e ci piace l'idea che anche Dio la pensi come noi. No, lo ripeto alla nausea: la felicità cristiana è una tristezza superata, una croce abbandonata perché ormai inutile e questa croce vuota - oggi - viene esaltata. La croce non è il segno della sofferenza di Dio, ma del suo amore. La croce è epifania della serietà del suo bene per ciascuno di noi. Fino a questo punto ha voluto amarci, perché altro è usare dolci e consolanti parole, altro appenderle a tre chiodi, sospese fra il cielo e la terra. La croce è il paradosso finale di Dio, la sua ammissione di sconfitta, la sua ammissione di arrendevolezza: poiché ci ama lo possiamo crocifiggere.
Esaltare la croce significa esaltare l'amore, esaltare la croce significa spalancare il cuore all'adorazione e allo stupore. Innalzato sulla croce (Giovanni non usa mai la parola "crocifisso" ma "osteso" cioè mostrato) Gesù attira tutti a sé. Davanti a Dio nudo, sfigurato, così irriconoscibile da necessitare di una didascalia sopra la sua testa, possiamo scegliere: cadere nella disperazione o ai piedi della croce.