Omelia (15-11-2008)
Paolo Curtaz


La preghiera, lo sappiamo, non è un'interminabile lista della spesa che rivolgiamo a Dio. Dietro quest'idea, peraltro molto diffusa, c'è un pregiudizio fasullo: io so bene in cosa consiste la mia felicità, Dio, per favore, si adegui. La preghiera, in questa logica, diventa un tentativo di corruzione di un Dio/despota che, potendo intervenire per salvarmi, si distrae e non mi esaudisce. Gesù, invece, ci dice che è ad un padre che ci rivolgiamo, un padre che conosce in cosa consiste la mia felicità, che desidera ed attua (non senza di me!) la mia pienezza. Chiediamo, allora, preghiamo anche chiedendo al Signore dei doni, delle grazie, ma facciamolo rivolgendoci ad un padre, che conosce nel profondo ciascuno di noi. E se non veniamo esauditi il padre sa il perché e ci invita alla fiducia e alla pazienza. Una sola volta, nel vangelo, Gesù perde le staffe: lo fa con i mercanti del tempio perché dietro quell'attività c'è l'idea di mercanteggiare con Dio, corromperlo, convincerlo. La parabola delle vedova importuna ci ricorda la necessità dell'insistenza nella preghiera. Perché, allora, spesso non siamo esauditi nelle nostre richieste? Forse perché ciò che chiediamo non è esattamente il nostro bene, o perché lo chiediamo con una insistenza insufficiente. Animo, allora, amici: cresca la nostra fede per poter credere che il Signore conosce ciascuno di noi e ci sostiene. Conserviamola, questa fede, in questi tempi di deserto interiore...