Omelia (02-11-2010)
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Commento su Matteo 5,1-12a

COMMENTO ALLE LETTURE
a cura di Padre Gianmarco Paris

Liturgia della Parola della 3ª messa

Stamattina, arrivando nella comunità dove era stabilito che celebrassi l'eucaristia, l'animatore della comunità mi ha comunicato che da poco era morta una ragazza di 16 anni: due giorni prima aveva cominciato a sentire male di testa, è stata portata all'ospedale e in seguito è morta. Racconti di questo tipo li ho sentiti molte volte da quando sono in Mozambico a svolgere la mia missione. ciò che più mi colpisce è la dignità con cui le persone affrontano questi momenti. In poche ore la famiglia deve organizzare i riti funebri e tutto ciò che ne fa parte; si chiamano i parenti vicini e nel giro di 24 ore si seppellisce la salma. Il lutto continua e al settimo giorno, con i parenti venuti da lontano, si celebra un altro rito sulla tomba del defunto (la deposizione dei fiori). Se il defunto appartiene alla Chiesa Cattolica, si chiama il prete o un laico incaricato (ministro della speranza) per presiedere il funerale.
In questi pochi anni in Mozambico ho potuto sentire ancora di più che la morte è la questione più seria e insolubile della vita, è la cosa più nascosta e al tempo stesso presente nella vita di tutti e di ogni giorno. Una cosa nuova che ho trovato è che il mangiare è parte integrante della celebrazione della morte e del lutto. Dopo la sepoltura, infatti, tutti i partecipanti tornano alla casa della famiglia del morto: entrando nel cortile lavano le mani e ricevono un cibo semplice (un tè con pane o mandioca o patata dolce). Questa refezione funebre significa molto: oltre ad essere necessaria per sfamare quelli che sono venuti a partecipare al funerale (magari camminando per ore), è un modo per significare la solidarietà con chi è nel lutto, un modo per rafforzare la vita di chi resta, un modo per affermare la speranza nella vita che continua.
Ascoltando la liturgia della Parola della terza messa per la commemorazione dei defunti ho notato l'insistenza sul tema del mangiare e mi viene spontaneo fare un parallelo con il costume del popolo mozambicano di mangiare insieme nel tempo del lutto, come forma per rafforzare la speranza della vita più forte della morte.
Il capitolo 25 di Isaia contiene una promessa solenne: il Signore strapperà un giorno il velo che copre tutti i popoli, distruggerà la morte per sempre; farà scomparire dalla terra l'obbrobrio che è la morte. Questa promessa è preceduta da un'altra: sullo stesso monte dove il Signore eliminerà la morte preparerà per tutti i popoli un banchetto solenne: ad una mensa così si rinnovano le forze ma anche la gioia di vivere (infatti se è vero che mangiamo per sopravvivere, per recuperare le forze, è altrettanto vero che mangiamo insieme con gli altri per recuperare la gioia di vivere e fuggire alla tristezza). Ciò viene dal Signore, è una promessa per i tempi ultimi, una luce che illumina il tempo intermedio, dove il velo ancora compre la terra e i popoli.
Il Salmo 23, il cantico del buon pastore, esprime la fiducia nel Signore, che come un pastore esperto, non lascia mancare nulla alle sue pecore: acqua, pascoli, sicurezza. Lasciando la metafora pastorale, il salmista esprime la fiducia nella protezione divina con la stessa immagine di un banchetto di festa: per me prepari la mensa, sotto gli occhi dei miei nemici; profumi il mio capo e il mio calice trabocca. Se tra i nostri nemici includiamo anche la morte (perché di fatto così la sperimentiamo), vediamo ancora una volta la tensione tra la morte e il banchetto, segno di una vita più forte, una vita ricca di gioia (indicata dal profumo e dal calice di vino): agli occhi di fede del salmista questa vita/gioia trionfa sulla morte, fino al punto di affermare che abiterà nella casa del Signore per il durare del tempo.
Nel Vangelo di Giovanni l'ultimo passaggio del lungo discorso di Gesù sul pane di vita porta a compimento la relazione che abbiamo visto in Isaia e nel Salmo 23 tra il mangiare e la morte. La novità del Vangelo è che il banchetto finale ora è accessibile e presente, e che il Signore Gesù non dà qualcosa di materiale, ma dà Se stesso da mangiare. Questo cibo particolare, che è il suo pane-carne e il suo vino-sangue, è la condizione per entrare in un rapporto intimo con Gesù (simile a quello che esiste tra Gesù e il Padre). Non è rimedio contro la morte fisica, ma garanzia di avere la vita vera (che non si esaurisce nella vita fisica che termina con la morte), è la condizione per risorgere con Cristo nell'ultimo giorno.
Nella prima lettera ai Tessalonicesi Paulo risponde alle loro domande sulla resurrezione e sull'incontro finale con Cristo: non ci sarà nessuna differenza tra chi sarà già morto e chi ancora sarà vivo. Tutti coloro che sono vissuti e morti in comunione con Cristo saranno chiamati allo stesso modo a far parte per sempre della sua vita risorta.
Nell'eucaristia che celebriamo si rende attuale la promessa di Gesù nel vangelo di Giovanni e si rende evidente il rapporto tra il cibo e la morte: Gesù infatti, la sera prima di morire, ha lasciato in una cena il testamento della sua vita intera e ha comandato di celebrarlo sempre in sua memoria. L'Eucaristia non è un pane che soddisfa la fame del corpo, ma ci mantiene in comunione con la fonte della vita. Se ricevendo l'Eucaristia ci disponiamo ogni giorno a vivere come Gesù ha vissuto, allora realmente essa ci prepara ad entrare per sempre nella vita di Dio, ci rende capaci di partecipare al banchetto solenne, sul monte dove Dio toglierà il velo e asciugherà le lacrime dei suoi figli. E dove incontreremo tutti coloro che ci hanno preceduto e sono morti in Cristo.