Omelia (15-02-2009)
Paolo Curtaz


Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini, ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.

Davanti al dolore dell'innocente i ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto. La Parola di oggi ci illumina: Gesù chiede al lebbroso guarito il silenzio. Non vuol passare come un guaritore, come un santone, certo, ma vuole anche indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore. Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo salva, lo riempie di condivisione. Gesù non dona nessuna risposta al dolore, lo condivide con passione. Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso. No: Gesù, letteralmente prova rabbia, stizza irrefrenabile verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico. La vita è dolore, concludono in molti. La vita è dolore, concludeva il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire. Gesù propone nella solidarietà condivisa l'alternativa. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.