Omelia (19-04-2009)
Paolo Curtaz


Anche gli apostoli hanno dovuto convertire il loro cuore. Alle parole delle donne, vaneggiamento di caratteri emotivi ed isterici (Lc 24,11). Alla loro esperienza sensibili, come fanno Pietro e Giovanni correndo e vedendo un lenzuolo svuotato (Gv 20). Alla parola del Maestro che chiede loro di non fermarsi al proprio limite (Gv 21,15).

Tommaso, il grande credente, deve abbandonare il sepolcro della delusione nei confronti dei suoi amici e compagni di fede, la peggiore delle crisi, la consapevolezza che la Chiesa, quella reale, non quella sognata, è fatta da uomini e donne peccatori e deboli. «Tommaso, abbiamo visto il Signore! È vivo!». Tommaso guarda i volti euforici dei suoi compagni. È sbalordito e attonito. «Tu Andrea, tu Simone, tu Giovanni? Voi mi venite a dire questo? Dove eravate? Dovevamo morire con lui! Siamo tutti fuggiti!». Il sorriso si spegne sul volto degli altri. Ha ragione, Tommaso. Non se ne va Tommaso. Non si sente offeso se il messaggio della resurrezione è affidato alle nostre fragilissime mani. Non capisce ma resta, senza fondare una chiesa alternativa, senza sentirsi migliore, senza andarsene. E fa bene a restare. Otto giorni dopo il Maestro torna, apposta per lui. Eccolo, il Risorto. Leggero, splendido, sereno. Sorride, emana una forza travolgente. Tommaso, ancora ferito, lo guarda senza capacitarsi. Viene verso di lui ora, il Signore, gli mostra le palme delle mani, trafitte. «Tommaso, so che hai molto sofferto. Anch'io ho molto sofferto: guarda qui». E Tommaso cede. La rabbia, il dolore, la paura, si sciolgono come neve al sole. Si butta in ginocchio ora e bacia quelle ferite e piange. «Mio Signore! Mio Dio!».