Omelia (26-10-2003) |
don Elio Dotto |
Fuggire o gridare Fuori luogo apparve in quel tempo il grido di Bartimeo (Mc 10,46-52). Apparve fuori luogo, quel grido, in mezzo alle voci sommesse di quanti stavano al seguito di Gesù. Sempre più sommesse, infatti, erano quelle voci, man mano che ci si avvicinava a Gerusalemme: perché sempre più impopolare appariva in quei giorni la parola di Gesù. Erano finiti gli entusiasmi dei primi tempi: a Gerusalemme i capi del popolo avevano ormai deciso di far uccidere questo scomodo Maestro; e la gente sembrava non credere più nella potenza di questo presunto Messia. Anche i discepoli ormai erano disillusi: al punto da desiderare che il passaggio di Gesù nei villaggi e nelle città facesse il minor rumore possibile. E infatti, all'udire il grido di Bartimeo «lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte». Volevano farlo tacere: perché già avevano dimenticato la lieta notizia di Gesù, e di nuovo erano convinti che quella malattia fosse inguaribile; di nuovo erano persuasi che quel male – come ogni male – fosse insuperabile. È quello che pensiamo anche noi oggi, davanti a quelle persone che soffrono di una malattia troppo grande, che pare irrimediabile. Di queste persone – e soprattutto della loro infermità – noi oggi non parliamo, magari anche solo per pudore. E queste persone stesse imparano a stare zitte, nascondendosi oppure fingendo in ogni modo che tutto sia normale. Troppo grande ed insuperabile appare infatti la loro pena: e dunque non può essere messa in piazza, a turbare il fragile equilibrio della vita quotidiana. Accade così a volte che i malati vivono rinchiusi in una stanza, o magari in un istituto; ma più spesso accade che il grido di molti sofferenti venga fatto tacere dall'indifferenza – e anche dalle buone maniere – di chi li circonda. Appunto come avvenne per Bartimeo, che gridava invano sulla strada di Gerico. E invece questo grido non può essere messo a tacere. Perché non è affatto vero che il male sia insuperabile; e non è affatto giusto vedere nella sofferenza una maledizione imbattibile. Infatti, in quel tempo Gesù disse al cieco: «Va', la tua fede ti ha salvato». E il cieco «subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada». Ma questo segno non bastò a convertire i discepoli: anche dopo essi rimasero scettici; e la loro disillusione divenne massima davanti alla morte in croce di Gesù, a quella morte crudele che sembrava smentire ogni speranza. Esattamente come noi, i discepoli si rassegnarono di fronte al male, ritenendolo un ostacolo insormontabile. Soltanto Gesù fu capace di non rassegnarsi: egli continuò a lottare fino all'ultimo, perché sapeva che il male non era l'ultima parola. Certo, anche lui dovette gridare sulla croce: ma quel grido era carico di speranza; quel grido non dubitava di trovare risposta. Noi invece spesso siamo rassegnati: al punto che non gridiamo più, e neanche sopportiamo che siano gli altri a gridare. Noi vorremmo soltanto fuggire, evitando ogni pericolo e ogni male. Eppure soltanto gridando la nostra debolezza possiamo essere salvati. Bartimeo quel giorno gridò forte, anche se volevano zittirlo: e fu salvato. Gesù sul calvario gridò ad alta voce la sua paura, anche se lo prendevano in giro: e fu salvato. Appunto: soltanto chi non si rassegna e grida la sua debolezza può trovare salvezza nella speranza che viene da Dio. |