Omelia (26-10-2003) |
Paolo Curtaz |
Ricuperare la vista del cuore Il mondo, il nostro mondo, stanco di maestri, ha bisogno di testimoni, nauseato dalle parole e dalle immagini, ha bisogno di gesti autentici e di ascolto. In queste settimane in cui abbiamo riflettuto su cosa Gesù chiede alla comunità dei propri discepoli, ci siamo accorti della nostra fragilità, del grande divario tra il sogno e la realtà, tra le troppe lentezze e fragilità che abitano il nostro cuore. Eppure... è a noi che il Signore chiede di essere testimoni, a noi di diventare segno, di mostrare con la nostra vita – un poco almeno! – che la luce può attraversare i nostri cuori. Siamo chiamati a diventare missionari, a esprimere con la nostra vita che Dio abita l'umanità, che la trasfigura e ci rende capaci di amare. Direi che l'essere missionari è la riprova del nostro cammino di fede: più Cristo ha cambiato la nostra vita e più la nostra missionarietà diventa esplicita, chiara, percepibile. Percepibile da chi ci sta intorno non tanto per i grossi crocifissi appesi al collo, ma per lo stile con cui lavoriamo, accogliamo, ci appassioniamo, sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in noi. Cosa dire? Come annunciare? Da dove partire? La figura di Bartimeo ci porta ad una chiara scelta: siamo ciechi che hanno recuperato la vista. Anche noi eravamo immobili, costretti a mendicare attenzione e affetto, anche noi, forse, abbiamo gridato anche se la gente ci invitava a rassegnarci alla nostra mediocrità, al nostro sordo dolore. E il Signore ha ascoltato e ha guarito, ha ridato luce. Bartimeo è lo stesso, la sua vita non cambia ma, ora, ci vede, ora sa dove andare, ora si mette a seguire Gesù. Sì, amici. Il cristiano vive le difficoltà e i problemi di tutti, non è diverso, né migliore, solo ci vede alla luce del vangelo. E le cose non fanno più paura, il buio è sopportabile, il Signore ci cambia la vita. Ecco: questo dobbiamo annunciare: c'è qualcuno che ti ridona luce, che ti permette di vederci chiaro e questo qualcuno è Dio. I discepoli di Gesù, nei primi anni, venivano chiamati in diversi modi: i Nazareni, coloro che seguono la via e il bellissimo: gli illuminati. Non dobbiamo portare una nostra luce, solo restare accesi, restare stretti stretti al vangelo e al Mestro per ricevere da lui luce e pace. Nelle tenebre fitte del dolore diventiamo capaci di comunicare luce, non la nostra ma quella del Maestro. Il cristiano diviene, come Bartimeo, colui che grida che Gesù, il Figlio di Davide, lo ha guarito, incurante dei rimproveri di chi gli sta intorno. Il cristiano racconta, narra, le opere di guarigione interiore che ha avuto, attento più a testimoniare la straordinaria generosità di Cristo che soffermarsi sulle sue povertà. Il cristiano è attento alle mille cecità, ai mille mendicanti di senso e di felicità che incontra sulla nostra strada. Sì, amici, il tempo è gravido e, come Gesù, sentiamo compassione della folla che pare come pecore senza pastore. Nella nostra povertà, nelle nostre debolezze, popolo di riconciliati, non di professionisti del sacro, raccontiamo, mettendoci in gioco, di questo incontro che segna la nostra vita. Solo così Gesù arriverà a scaldare i cuori di altra gente. Non bastano e non devono bastare i preti, a servizio della comunità, certo, ma non detentori dell'annuncio. No: nelle fabbriche, nei bar, nelle discoteche, nelle scuole, nei condomini, la dove la gente vive, soffre, lavora, discute, ama, lì deve esserci un cristiano che illumina con la sua presenza. Lì può esserci un cristiano che con i suoi gesti smonti la falsa idea di un Dio noioso e rompiscatole che purtroppo abita la coscienza di molti battezzati, per lasciare spazio alla seducente immagine del Dio di Gesù Cristo, Padre ricco di tenerezza e di perdono. Affinché ogni uomo possa sentirsi dire, come è successo a noi: "Coraggio, alzati, il Signore ti chiama!". |