Omelia (26-10-2003)
don Roberto Rossi
Che io riabbia la vista!

Anch'io m'incontro qualche volta con dei ciechi. Ne ho alcuni in parrocchia; li vado a trovare volentieri; ti fanno percepire tutto un mondo ricco di una vivacità unica. A volte li trovo, con mia sorpresa, contenti e sereni. Altri, invece, non mi nascondono un senso di tristezza profonda e sento come cadere nel vuoto le parole di conforto che a stento mi escono dalla bocca.
Bartimeo, il cieco di cui ci parla Marco, sentiva il peso della sua sventura, tanto più grave perché, non avendo mezzi di sussistenza, era costretto a mendicare. Una speranza gli spunta nel cuore quando sente dire, nel brusio della folla, che c'è Gesù di Nazaret: «Cominciò a gridare e a dire: "Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! "». Poco gl'importa che la gente lo sgridi per farlo tacere: «Egli gridava più forte: Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù ne ebbe pietà. Lo fece chiamare e quando l'ebbe vicino gli domandò: «Che vuoi che io ti faccia?». Cosa poteva chiedere quel poveretto? Ma Gesù lo volle sentire dalle sue labbra: «Che io riabbia la vista!». La risposta del Maestro non si fa attendere: «Va', la tua fede ti ha salvato!». Altre volte ci siamo fermati sul significato dei miracoli operati da Gesù come manifestazioni di potenza e di amore, come segni destinati ad autenticare il profeta di Nazaret quale inviato di Dio, Figlio di Dio.
Qui, l'accento messo da Gesù sulla «fede» che ha guarito il cieco invita a pensare alla cecità dello spirito, da cui egli è liberato con la luce della fede: «Che io riabbia (o abbia) la vista!». È l'attesa, l'anelito, più o meno consapevole, di tanti. Ch'io abbia una fede più illuminata, più salda, più coerente e operosa! Deve essere la domanda di ognuno di noi. Se essa salirà a Gesù come un grido insistente, umile e fiducioso, Egli ci esaudirà. Chiediamo, per noi e per i nostri fratelli, che accresca "in noi la fede, la speranza, la carità".
Chiediamo che la luce della fede illumini sempre più noi che crediamo, ma troppo debolmente, e non sappiamo vivere in coerenza con la fede che professiamo. Imploriamo la luce della fede per i fratelli ai quali non è ancora pervenuto l'annunzio del Vangelo, e domandiamo la grazia divina sull'opera dei missionari.
Quali sentimenti abbia provato Bartimeo riaprendo gli occhi alla luce, il vangelo non lo dice. Non ce n'era bisogno. Una gioia simile è difficile immaginarla. Ma di gioia parla esplicitamente il profeta Geremia predicendo, alle tribù disperse il ritorno nella terra degli antenati, la pace e la prosperità..
La gioia viene dall'annunzio della liberazione. Come può essere contento chi è in carcere, chi geme sotto il giogo dell'oppressione e della prepotenza, chi non è riconosciuto nella sua dignità di uomo? È un invito alla speranza. Sotto il peso della sofferenza, soprattutto quando essa si prolunga e si ha l'impressione che non debba cessare mai, è facile la tentazione dello scoraggiamento. Ma il profeta ci conforta: «Essi erano partiti nel pianto, io li riporterò tra le consolazioni». Il salmista a sua volta ci rassicura: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo». La vigilia della sua morte Gesù prometterà ai discepoli: «Voi piangerete e vi rattristerete, e il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia» (Gv 16,20). E se la sofferenza dovesse prolungarsi oltre quelli che sembrerebbero i limiti del sopportabile, rimarrebbe sempre vera la parola di Paolo: «Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2 Cor 4,17).
Il profeta Geremia e il salmista non aspettano la liberazione e la gioia dallo sforzo di chi è oppresso e soffre.
Come Bartimeo che non aspettava la vista né dai suoi sforzi né dalle cure dei medici, Israele aspetta tutto dal Signore. Qui la bontà del Signore è sottolineata con una parola che costituirà il centro del messaggio divino: «lo sono un Padre per Israele».
Da Dio viene la speranza e la gioia. Talvolta egli la dona ai suoi figli nei modi più impensati e nel momento che meno se l'attendono.
Egli vuole che noi suoi figli ci facciamo messaggeri di gioia per i fratelli, portatori di vita. «Collaboratore della vostra gioia»: così Paolo vuoI essere per i fedeli di Corinto. Lo possiamo, lo dobbiamo essere anche noi: con l'evangelizzazione (portare il lieto messaggio), con la promozione umana, aiutando i fratelli a liberarsi dal bisogno, dall'oppressione, dalla sofferenza. Come le squadre di tanti volontari che accorrono in aiuto di chi è vittima di calamità; come le famiglie che si aprono ad accogliere bimbi in difficoltà, come tanti che si impegnano nella società e nei problemi dell'umanità di oggi.