Omelia (08-02-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Marco 6,30-34 Gli apostoli tornano dall'invio in missione: ora sono loro ad avere parlato del Regno, tornano entusiasti, ci riferisce in un brano parallelo Luca, ma stanchi dalla tensione e dai tanti chilometri percorsi... Gesù, con tenerezza, lo avete sentito, propone loro un momento di riposo con lui, un ritiro vero e proprio ma, appena giunti nel luogo prescelto, la folla già li aspetta; Gesù, invece di snervarsi, sente compassione, perché vede la gente come pecore senza pastore e si ferma di nuovo ad insegnare; un bellissimo quadro della quotidianità del gruppo degli apostoli, quello di oggi, denso di umanità e di compassione. E penso ai tanti fratelli e sorelle che lavorano "full-time" per il Regno, agli amici preti che stanno ascoltando queste parole in un vecchia canonica di montagna o a quelli che stanno organizzando la domenica che viene in una caotica parrocchia di periferia; penso alle tante suorine che – in età di pensione – ascolteranno queste parole in una corsia di ospedale dove fanno servizio dodici ore al giorno 365 giorni all'anno, penso a quei volontari che in nome del Nazareno stanno offrendo un aiuto, una parola, una speranza in questo momento senza che nessuno li ringrazi, penso alle coppie che faticano a ritagliarsi uno spazio di preghiera, alla sera, messi a nanna i bimbi, per restare ancorati al Maestro. Penso alle tante volte che loro, come me, si sono chiesti se ne valesse davvero la pena di rischiare tutto, di gettare la vita nelle mani di un tale venuto duemila anni fa, se davvero sia stata la scelta migliore. Sì, amici, sì, per sempre. Sì per tutte quelle volte che il Signore ci accorda di vedere la folla come pecore senza pastore, per tutte quelle volte che sentiamo compassione vera, evangelica, per gli ultimi del mondo, per tutte quelle volte che abbiamo la gioia di vedere la parola del Signore, la sua non la nostra, toccare il cuore delle persone e dar loro speranza. Andiamo da Lui, allora, dal Maestro a riposarci un poco. |