Omelia (17-02-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Marco 8,11-13 Conosco un sacco di gente che di mestiere fa il consigliere di Dio: discute animatamente con lui, povero Dio, annotando scrupolosamente tutto ciò che Dio, fosse un po' meno tirchio, dovrebbe fare: fermare le guerre (che noi facciamo), sfamare i bambini che muoiono di fame (che muoiono a causa di un'economia che spinge il 20% della popolazione a fare le diete e l'80% ad essere sottonutriti), ed, eventualmente, punire esemplarmente qualche cattivo. Così molte persone scaricano su Dio ogni responsabilità, lo accusano di ogni evento traumatico, insomma, in una parola, Dio non sa proprio fare il suo mestiere quindi o è inutile o non esiste visto che io, probabilmente, farei meglio. Già ai tempi di Gesù esisteva questo sport: i farisei del vangelo di oggi, che detengono il potere, che sanno di essere secondo il cuore di Dio, che rispettano scrupolosamente la Torah e ogni minuzia, fanno l'esame a Gesù, sono disposti, in teoria, a credere in lui, ma egli deve, perlomeno, fornire un segno. Già, che segno? Cosa desiderano? Non è bastata la moltiplicazione dei pani? Né la guarigione dei lebbrosi o dei ciechi o del paralitico? No, evidentemente, non basterà neppure il grande segno della resurrezione di Lazzaro né l'ultimo, definitivo segno della propria resurrezione: non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere. Gesù non da alcun segno, non accetta nessun compromesso, non ci sta, non riconosce questi uomini presuntuosi e infantili come proprio collegio giudicante. Non c'è desiderio in loro, né amore, né curiosità autentica, né, soprattutto, alcuna capacità di mettersi in discussione. La loro supponenza impedisce loro di vedere ciò che davvero fa il Messia, il loro pregiudizio li acceca a tal punto da non riuscire a capire che non è il miracolo fuori che cambierà la loro prospettiva ma solo, eventualmente, la propria disponibilità a mettersi – finalmente! – in discussione. Fidiamoci, discepoli del Signore, noi che abbiamo conosciuto la grandezza e la tenerezza del nostro Dio, nel Signore Gesù, lasciamolo lavorare, evitiamo di metterlo alla sbarra né, tragicamente, di porgli delle condizioni. Sei sempre messo sotto accusa, Signore, allora come oggi l'uomo chiede dei segni, pone delle condizioni per poter credere. Ma la fede è più semplice, più libera, più vera ed obbliga a metterci in discussione ed essere veri con noi stessi. Tu sei un Dio adulto, Signore, e da adulti ci tratti, Dio benedetto nei secoli. |