Omelia (02-11-2003) |
don Fulvio Bertellini |
L'esperienza, la prova e la fede Premessa Quest'anno il calendario ci gioca un felice scherzo liturgico, proponendoci un fine settimana ad alta densità liturgica: sabato la solennità dei Santi, domenica il giorno dei morti (ma forse si dovrebbe chiamare festa...). Per qualcuno (o molti?) sarà un bel week end in montagna, o al mare, o l'occasione di un ritorno in famiglia. Per noi e per le nostre comunità potrebbe essere un'occasione di recuperare aspetti fondamentali della nostra fede. Mi soffermo nel commento sulla solennità di tutti i Santi, in cui le letture sono certe. Di per sé, per la domenica, la liturgia offre ampia possibilità di scelta nel lezionario dei defunti. In realtà poi la tentazione è di arrangiarsi col foglietto preconfezionato, ed è un vero peccato. Una celebrazione che andrebbe accuratamente preparata e caraterizzata per ogni comunità rischia di finire triturata nel fine settimana festaiolo e nel ripetersi di abitudini che - ahimé - non si sa bene se definire tradizioni. Il problema del nostro tempo La riflessione sulla santità mi pare fondamentale per il nostro tempo, in cui domina il pensiero scientifico, o meglio, il pensiero tecnologico-economico. Finita l'era delle grandi certezze e delle grandi ideologie, ci si accontenta di dominare e controllare piccoli segmenti di realtà. Controllare, misurare, implementare, sviluppare, produrre, aumentare, verificare... il lavoro quotidiano di milioni di persone ha a che fare con entità tangibili, monetizzabili, che devono dare un risultato. E il risultato deve poter essere esibito, reso pubblico, è esso stesso una merce da vendere. Anche le notizie infatti sono "merci" e devono sottostare alle leggi economiche: un telegiornale non deve essere solo corretto, credibile, e dare informazioni "giuste". Deve anche avere audience, essere quindi accattivante per il pubblico, e orientare l'opinione pubblica nella direzione dovuta. Misurare la fede? E' chiaro che la pretesa di rendere tutto misurabile/monetizzabile cozza contro l'esigenza fondamentale della fede, e un simile modo di pensare ci mette a disagio. La sensazione diffusa è che "oggi" sia PIU' DIFFICILE CHE UN TEMPO credere e parlare di Dio. A dire il vero, uno sguardo indietro nella storia ci confermerebbe che OGNI TEMPO e OGNI LUOGO ha avuto le sue difficoltà a credere e parlare di Dio: il mondo filosofico greco, a causa della sua filosofia; il paganesimo dei popoli primitivi, a causa della mentalità politeista e animista; il mondo buddista e induista, a causa della sua visione spirituale; il Rinascimento, a causa della sua visione antropocentrica... gli esempi si possono moltiplicare, ma il disagio non cessa. Aver scoperto che questo disagio si protrae da tempo non ci dà una gran consolazione. Decisiva è invece la scoperta che in OGNI TEMPO e in OGNI LUOGO la fede, incontrandosi e scontrandosi con le culture, con il modo di pensare e di vivere degli uomini, ha saputo trovare le risposte, ha saputo incarnarsi, si è arricchita e approfondita; possiamo rendercene conto guardando all'esperienza dei santi di ogni tempo e di ogni luogo. Ed è già un contributo importante della festa di tutti i santi; ma ancora più importante è il contributo per il nostro tempo, che pretende di avere tutto a bilancio, tutto sotto controllo. L'esperienza dei santi La vita dei santi è infatti tangibile e verificabile, e mostra come la fede in Cristo diventi esperienza, trasformi la persona, susciti energie nuove... Può essere discutibile la moltiplicazione di santi e beati sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, ma ha il valore di mostrare come in ogni popolo, in ogni comunità cristiana, il Risorto ha operato, è entrato nella storia, e che non si tratta di un processo concluso, ma continua ancora oggi. Certamente, si tratta di una verifica che solo in parte risponde alle nostre esigenze. La contabilità della santità diventa provocazione, e fa saltare la nostra pretesa di controllare tutto: la vita dei santi ci mette di fronte un'esperienza viva, ma ci ripropone la domanda di fede. Siamo disposti a riconoscere che Dio stesso ci parla nella loro esperienza? Siamo disposti a credere che il Risorto stesso opera nei santi? Siamo disposti anche noi a fidarci di quelle parole di Cristo: "Beati i poveri... beati i miti... beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno... rallegartevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli? Generalmente fatichiamo ad immergerci nel linguaggio simbolico dell'Apocalisse. Tuttavia ad una lettura attenta esso si rivela molto vicino ai nostri problemi e alla situazione del nostro tempo. La comunità cristiana, nata come un piccolo gruppo dalla predicazione degli apostoli, repentinamente diffusa in tutto l'impero romano, si ritrova immersa nella storia. E' vivo l'annuncio della Risurrezione del Signore, ed è viva anche l'attesa del suo ritorno. Ma questo ritorno non viene. E la storia del mondo, con cui inevitabilmente ci si confronta, pone pesanti interrogativi, e mette in discussione la fede. Perché il Signore risorto non ritorna? Perché permangono il male, la violenza, la sopraffazione? Che senso hanno le sofferenze e le persecuzioni a cui i fedeli di Cristo sono sottoposti? Sono le stesse domande che ci poniamo noi, con la differenza che noi abbiamo duemila anni di storia alle spalle, e forse nel nostro cuore si è un po' affievolita l'attesa della venuta finale del Risorto. "... i quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare...": l'immagine degli angeli con potere di devastazione nell'apocalisse esprime il controllo che Dio ha sulle forze negative della storia. Guerra, violenza, malattia, morte... il male che si manifesta nel mondo non sfugge al controllo di Dio. "... non devastate... finché non abbiamo impresso il sigillo": altro tema simbolico tipico dell'Apocalisse è il ritardo o il rallentamento della sciagura, per riguardo a coloro che sono fedeli a Dio. Dio si prende cura di coloro che lo amano, che restano indelebilmente nel suo amore: ciò viene espresso con il simbolo del sigillo. Il paradosso della storia è che il male mostra i suoi effetti anche contro i diletti di Dio; ma essi portano il suo "sigillo", e il male non li travolge in modo definitivo. "... centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d'Israele...": anche questo è un numero simbolico (12x12x1000), legato al numero dodici, il numero delle tribù di Israele. Il popolo dell'Alleanza ha una sua connotazione specifica e una sua considerazione a parte. "Dopo ciò apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo, lingua...": i centoquarantaquattromila non sono oggetto di visione. Il loro numero viene solo udito. Ciò che si vede è una moltitudine innumerevole, in cui scompare ogni distinzione etnica. "Tutti stavano in piedi": anche questo elemento ha valore simbolico: è la posizione dei risorti, di coloro che hanno vinto la morte "avvolti in vesti candide": il colore bianco è segno di partecipazione alla divinità, e la veste esprime l'identità della persona. La palma è segno di vittoria. "coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione": la conclusione di questa visione manifesta apertamente la sua finalità e il suo senso: il cristiano deve passare attraverso le tribolazioni e le prove della storia, per arrivare alla gloria. La storia, con tutte le sue contraddizioni e le sue negatività, non è non-senso, ma sta sotto il controllo di Dio. Flash sulla II lettura "Quale grande amore ci ha dato il Padre...": in brevi parole è condensato il segreto della santità, una santità che riguarda tutti: lasciarsi amare da Dio. Prendere coscienza dell'amore di Dio. Spesso invece noi intendiamo la santità come esercizio di virtù eroiche, come sforzo di ascesa a vette sublimi. E vista da fuori la vita dei santi può dare una simile impressione. Vedendola invece da vicino, troviamo che l'atteggiamento dominante è una profonda disponibilità, la consapevolezza che è Dio che agisce nella loro vita. |