Omelia (14-03-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Matteo 5,20-26 Gesù, nuovo Mosé, sulle colline che attorniano il lago di Tiberiade, consegna la nuova alleanza al suo popolo: con autorevolezza inattesa e scandalosa si permette di riprendere alcuni degli intoccabili precetti che minuziosamente regolavano la vita del pio israelita e di correggerli, cioè di riportarli al loro significato originale. Così nel minuzioso calcolo del rapporto con i fratelli, la violenza che veniva gestita da norme precise, viene capovolta: può essere mortale anche una parola o un giudizio e di questo si deve rendere conto. Ah, Signore, era così comodo poter apparire dinnanzi a te con la coscienza a posto! Chi di noi può dire di non avere mai giudicato il fratello? Chi di non avere pensato male della collega di lavoro? Gesù ribalta la prospettiva, trascina la legge nell'infido terreno della misericordia e ci obbliga a superare la giustizia degli scribi e dei farisei andando al cuore dei problemi, non all'apparenza legale. Il colpo di grazia, però, ci arriva da quella sconcertante conclusione: la nostra preghiera, la nostra devozione è inutile se non è prima riconciliata col fratello. Gesù dice di deporre l'offerta e riconciliarci col fratello che ce l'ha con me: non prevede neppure che io ce l'abbia con qualcuno! Obiettivo difficile, quello che ci chiede il Signore, ma possiamo diventare figli del perdono e della riconciliazione poiché perdonati e riconciliati nel profondo, siamo capaci del gesto inaudito e profetico non per un nostro sforzo – come pensavano devotamente i farisei – ma come contagio di un dono ricevuto. Ecco un bell'impegno: diventare figli della riconcilizione affinché la nostra giustizia sia diversa da quella usata da questo mondo, una giustizia basata sull'amore. Aiutaci oggi, Signore, a fare agli altri ciò che vorremmo gli altri facessero a noi. Rendici discepoli di quel Dio che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, Dio benedetto nei secoli! |