Omelia (22-03-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Luca 15,1-3.11-32 Il Padre è una maschera, un concorrente ("devo andarmene di casa per realizzarmi" pensa il primo), un despota ("mi tocca lavorare tutta la vita facendo il bravo ragazzo senza una piccola soddisfazione" pensa il secondo), un fantoccio. Come quel Dio in cui crediamo o non crediamo (fa ridere ma è così: un sacco di gente non crede in un Dio che non esiste!). Quel Dio frustrazione dell'uomo, castrazione della libertà, quel Dio a cui rendere conto, per carità, che molti, troppi (anche cristiani!) portano nel loro cuore intristito. E leggete del primo figlio che spende tutto, che si fa Dio di se stesso, che pensa che la vita è sballo. Bello, vero, giusto. Ma poi la vita presenta il conto, la verità viene a galla e il figlio smarrisce nel fango dei maiali il suo delirio di onnipotenza. E pensa, riflette. Si pente? Scherziamo? Leggete bene: la fame lo fa tornare, non il rimorso; lo stomaco lo guida, non il cuore. E, astutamente, si prepara la scusa: "sai, hai ragione, che stupido, non merito...". No, continua a non capire nulla del Padre. E leggete di quell'altro figlio che torna dal lavoro stanco e si offende della festa. Come dargli torto? Il suo cuore è piccolo ma la sua giustizia grande: sì, è vero, il Padre si comporta ingiustamente nei suoi confronti. Bene, fermatevi qui ora. Niente bei finali, Luca si stoppa. Non dice se il primo figlio apprezzò il gesto del Padre e, finalmente, cambiò idea. Né dice che il fratello, inteneritosi, entrò. No: la parabola finisce aperta, senza scontate soluzioni, senza facili moralismi e finali da Principe Azzurro. Macché: la verità è proprio ancora qui: puoi stare col Padre senza vederlo, puoi lavorare con lui senza gioirne, puoi lasciare che la tua fede diventi ossequio rispettoso senza che ti faccia esplodere il cuore di gioia. Come i due figli della parabola, Signore, abbiamo falsato il tuo volto: abbi pietà di noi, Signore. |