Omelia (01-11-2003)
mons. Antonio Riboldi
Come vorrei essere tra loro!...

Oggi, solennità di tutti i santi, e domani, commemorazione dei defunti, sembra che l'umanità si fermi per un momento a riflettere su ciò che siamo e ciò che saremo. Ci pare di essere vivi e, piegandoci sulle tombe dei nostri cari, sentiamo che questa vita è davvero "un momento" breve o lungo, concesso da Dio, ma che ha il suo traguardo altrove, ha un "dopo" che fa meditare, e seriamente, sul senso stesso, sulla fine, sul perché stesso della nostra esistenza. Guardiamo le tombe dei nostri cari, a volte rischiamo di ricordarli solo con esteriorità, che nulla servono al ricordo, ma rischiano di essere una esibizione che appartiene al nostro effimero mondo che passa, ma nulla ha a che vedere con la serietà della morte e del ricordo dei nostri morti. Loro attendono ben altro! Nel dialogo tra il barone e lo spazzino, mi pare, nella poesia "la livella", un dialogo tra morti, di fronte alla alterigia del barone, lo spazzino giustamente affermava presso a poco: "Un re, un magistrato, un grande uomo passando questo cancello ha perso tutto, vita e nome: perciò stammi a sentire, queste pagliacciate le fanno i vivi, noi siamo seri, apparteniamo alla morte".
Ed è alla serietà della morte che ci invita la commemorazione dei defunti: una serietà che deve essere la nostra caratteristica della vita, il grande dono che il Padre ci ha fatto per appartenere alla schiera dei Santi che conosceranno il vero volto della vita, quella di vedere il volto di Dio e quindi entrare nel cuore dell'amore e della felicità.
Il desiderio che mi accompagna sempre nella vita, dando un volto, è quello di essere tra i tanti di cui scrive Giovanni nell'Apocalisse: "Apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare di ogni nazione, razza, popolo, lingua. Tutti stavano in piedi davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle loro mani. E gridavano a gran voce: la salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono e all'Agnello" (Ap. 7,2-4).

E Gesù indica oggi nel Vangelo la carta di identità di quanti vogliono essere nel numero degli eletti: ossia le beatitudini. Hanno il dolce suono di una difficile, ma meravigliosa sinfonia, propria di chi sta davanti all'Agnello e le ha vissute. E' bello non solo risentirle, ma modellare la nostra vita sulle sue note. "Beati i poveri in spirito, di essi è il Regno dei Cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, saranno saziati.
Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni male contro di voi, per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli" (Mt. 5,1-12).
Che voglia di Paradiso viene leggendo le beatitudini...che nostalgia di cielo diventa questa nostra vita, a volte nel buio, pensando a quella moltitudine, cercando di crearci, con la santità, un posto.
La mia carissima gente di Santa Ninfa', nel Belice, quando iniziò finalmente la ricostruzione, non riusciva a darsi una ragione del perché noi sacerdoti non pensassimo, anche noi, a costruirci una Chiesa ed una casa, come loro.
"Siete potenti, siete preti, ci dicevano, e se chiedete potete tutto".
"Io la casa la sto facendo o meglio la sto progettando giorno per giorno: una casa che non deve cadere più ed essere la più bella che esista". "Ma dove intende costruirla?". "Non qui sulla terra dove tutto, presto o tardi, va in rovina, perché è così la sorte di tutto qui. La mia casa la sto progettando e costruendo pietra su pietra, che sono le opere buone, in Paradiso: una casa per l'eternità".
A prima vista potrebbe sembrare un'affermazione esagerata anche solo sognare di essere tra quella moltitudine, di cui parla l'apostolo Giovanni nell'Apocalisse, se ci fermiamo, forse con superficialità, sulla realtà che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. C'è poco spazio, sembra, per le "beatitudini" di Cristo. Cerchiamo, sembra, altre beatitudini che sono qui e rischiano di chiuderci le porte del Cielo. E' così raro, infatti, ammirare i tratti della santità nella gente comune, che ci sta attorno, perché si vede il Paradiso come una meta per pochi.
"Chi ci andrà mai?". "E' possibile un posto tra la moltitudine che in cielo canta le glorie del Signore?". Ci imbattiamo in tante di quelle debolezze, che sembriamo proprio tagliati fuori da ogni possibilità di santità. Vorremmo essere umili, miti, e ci accorgiamo che tanti nostri gesti sono imbrattati di superbia, che a volte non riusciamo neppure a contenere tanto è grande. Vorremmo essere "poveri in spirito" e ci sentiamo continuamente le mani sporche delle cose cui siamo attaccati, come fossero "carne della nostra carne": siamo e diventiamo tanto gretti da chiuderci anche verso la più elementare generosità, che ci insegni a liberarci da noi stessi per avere ali da donare all'amore e alla solidarietà. Vorremmo forse contenere nel cuore tutta la gente, a cominciare da quelli che sono poveri, che soffrono, e poi ci accorgiamo che, per indifferenza o per scelta di stare comodi, non riusciamo a mettere neppure il naso fuori dai nostri interessi.
Sogniamo a volte la bellezza davvero angelica della purezza di cuore e poi non riusciamo a liberarci dalle spire delle mode, che mandano a brandelli anche la più elementare dignità, fino a non riuscire neppure ad arrossire per comportamenti e mode, che sono un pugno di fango sulle purezza del cuore. Chiediamo al Padre continuamente misericordia per il nostro stato di peccatori e non siamo capaci di donare la pace a chi ci ha offeso. Viene da chiederci: "Ma la santità è di tutti, o è un atto eroico di qualcuno che Dio privilegia ed ama in particolare?".
Ed è giusto chiederci tutto questo oggi, solennità di tutti i santi, quando da una parte, chinandoci sulle tombe dei nostri cari, contempliamo il grande mistero della morte, che è per tutti, e dall'altra, se siamo seri, ci interroghiamo su cosa ci attenda dopo la nostra morte, il momento più importante e decisivo della vita.
Non è possibile che tutto finisca lì, sotto una manciata di terra, come se la vita fosse un cattivo scherzo. E neppure può finire lì, in un mesto ricordo, tutto il vincolo di amore che ci univa fortemente in vita, come fossimo una cosa sola, inseparabile, con chi ora non è più tra di noi.
Non è amore ciò che non conosce l'eternità. Può anche darsi che qualcuno di noi consideri la vita un "diario su cui scrivere sciocchezze", un "diario da buttare tutto per intero perché non contiene nulla di interessante da conservare per l'eternità da presentare a Dio".
La vita, e lo sentiamo tutti nella esperienza quotidiana, è una realtà seria: lo possono dire le mamme, i papà, tanta gente che si sforza di interpretarla come fosse un racconto che splenda agli occhi di tutti, di Dio e degli uomini.
Non ci resta allora che "lavorare giorno e notte" pensando a quella moltitudine celeste, magari, cantando nel cuore, il canto che rivolgiamo a Maria, nostra Madre: "Andrò a vederla un dì, in cielo patria mia".
E' il grande desiderio che deve possedere il centro del cuore.