Omelia (21-04-2011)
don Alberto Brignoli
Amato e tradito

Ci troviamo di fronte ad uno dei momenti più suggestivi della nostra fede. Come in poche altre occasioni, la Celebrazione della Cena del Signore ci fa sentire in profonda intimità con lui. Si avverte da una parte l'attesa trepidante per qualcosa di grande che sta per accadere; dall'altra, la funesta percezione che questo "qualcosa" senza ombra di dubbio è grande, ma è pure drammatico e doloroso.
È un misto di gioia e tristezza, di emozione e di commozione, talmente intenso che mette a dura prova l'imperturbabilità anche degli animi più rigidi. Terminare la messa senza ricevere la benedizione; vedere il tabernacolo spalancato e vuoto; assistere allo spogliamento dell'altare, privato di ogni ornamento magari dopo essere stato adornato in maniera particolarmente ricercata... e tutto questo, al termine di una celebrazione carica di particolare intensità a livello liturgico. Il canto del Gloria, intonato dopo diverse settimane di assenza e accompagnato dal solenne suono delle campane a distesa, successivamente "legate" fino sabato; il brano di Vangelo prima narrato, e poi rappresentato dal rito della lavanda dei piedi; non solo il memoriale dell'istituzione del Sacramento dell'Eucaristia, ma anche il ricordo dell'inaugurazione del ministero sacerdotale che aleggia su tutta questa giornata, a partire già dalla Messa Crismale del mattino con il suo carattere fortemente carismatico.
Eppure, nonostante ciò, se durante la Veglia Pasquale di sabato ascolteremo cantare "Questa è la notte in cui hai vinto le tenebre del peccato", la memoria di quest'ultima cena dei discepoli con il Maestro ci ricorda invece che questa è la notte in cui le tenebre vincono sulla luce del giorno.
Questa è la notte del boccone dato a Giuda, con il quale satana entra in lui e Gesù, angosciato, lo invita a fare al più presto quello che deve fare.
Questa è la notte del capo di Giovanni reclinato sul petto di Gesù in segno di profonda intimità con lui, ma è anche la notte delle spade e dei bastoni portate nel Getsemani per arrestare il Nazareno.
Questa è la notte in cui si sancisce la Nuova Alleanza con il sangue dell'Agnello senza colpa, ma è anche la notte del sangue sudato per l'angoscia mortale.
Questa è la notte del Corpo di Cristo offerto per la salvezza del mondo, ma è anche la notte dei trenta denari, prima ricevuti e poi gettati nel tesoro del tempio, prezzo di quello stesso Corpo dato gratuitamente.
Questa è la notte del catino pieno di acqua, del grembiule indossato e del servizio umile ai fratelli, ma è anche la notte dell'abuso di potere e dell'autorità usata per scopi ignobili.
Questa, è, in definitiva, la notte delle contraddizioni: per un gruppo di discepoli riuniti con il Maestro in una comunione così profonda al punto di essere una sola cosa con il suo Corpo e il suo Sangue, c'è un gruppo di discepoli che vedendo il loro Maestro arrestato ingiustamente da una folla inferocita che brandisce spade e bastoni, invece di difenderlo se la dà a gambe levate per paura di fare la stessa fine. E ciò che fa più male, è che si tratta dello stesso gruppo di discepoli.
Questi, in fondo, siamo noi. Questa, per ora, è la nostra fede: quella di chi, a parole, andrebbe sulla Croce con il Maestro e poi lo rinnega di fronte al primo sconosciuto.
Una fede fatta di contraddizioni, di promesse non mantenute, di propositi lasciati cadere nel vuoto. Una fede fatta di effusioni e di facili entusiasmi quando partecipiamo a una celebrazione particolarmente suggestiva, o quando ci dirigiamo in pellegrinaggio verso un santuario dove la santità trasuda pure dalla pareti del luogo, e che poi si perde in un bicchier d'acqua quando, in fabbrica, in ufficio, in negozio, a scuola o in famiglia - magari anche in parrocchia - ci viene chiesto di rendere ragione della nostra speranza riposta in Cristo.
E così è pure il nostro vissuto cristiano, fatto di solenni - e spesso sicuramente anche sinceri - giuramenti di fedeltà e di identità con il Vangelo in occasione della Pasqua, del Natale e delle feste a noi più care, ma che poi crolla nel banale e scontato pregiudizio nei confronti di chi è diverso, in sommarie affermazioni che di tutto parlano meno che di accoglienza e solidarietà, in atteggiamenti che è assolutamente impensabile definire onesti, rispettosi, puri e soprattutto conformi al Vangelo.
Non prendiamocela con troppa facilità nei confronti dei tre discepoli che hanno dormito nel Getsemani mentre il Maestro era angosciato al pensiero di una morte ormai prossima; non giudichiamo senza mezzi termini tutti gli altri amici fuggiti mentre venivano ad arrestarlo; e nemmeno demonizziamo in maniera troppo sbrigativa Giuda il traditore: forse avremmo fatto lo stesso, forse ci saremmo comportati alla stessa stregua, forse essi non sono poi così diversi da noi, se prendiamo in considerazione quante volte a parole diciamo di amare Gesù fino alla morte e poi ci rimangiamo tutto consegnando alla morte lui, colpevole solo di avere creduto alla nostra amicizia nei suoi confronti.
Amato e tradito, e per di più allo stesso tempo: questo è il destino del nostro Dio, questa è la sorte a cui l'abbiamo abbandonato fin da quella "notte degli imbrogli" che oggi commemoriamo conferendole un'incomprensibile solennità.
"Incomprensibile" agli occhi di chi non crede. Ma se nel nostro cuore continua a rimanere acceso un barlume di fede e di amore a lui, nonostante i nostri reiterati tradimenti, ciò che le tenebre non vogliono accogliere e cercano di soffocare diviene per noi motivo di luce e di speranza.
Allora, il nostro pianto non sarà disperato, come quello di Giuda; sarà, come quello di Pietro, amareggiato dal peccato ma carico di attesa per un perdono che ci verrà accordato, e di cui quel pane spezzato, quel vino versato, quel catino pieno d'acqua e quel grembiule indossato sono, questa sera, pegno sicuro e promessa certamente mantenuta.