Omelia (22-04-2011)
don Alberto Brignoli
Crocifissi e crocifissori

Ci auguriamo che presto possa scendere la notte su questa già di per sé oscura giornata del Golgota. E che la notte avvolga nel silenzio il mistero della Croce e di Colui che vi è appeso.
Vederlo lì a soffrire ingiustamente per causa nostra non ci fa affatto piacere. "Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere", si profetizzava di lui già al tempo di Isaia. Per cui, se la notte arriva presto a dire una parola definitiva e a chiudere questa partita che nessuno mai avrebbe voluto giocare, tanto riguadagnato.
E terminando, la commemorazione annuale della Passione e Morte di Cristo ci affiderà al grande silenzio del Sabato Santo, ma ci lascerà in eredità le migliaia, i milioni di crocifissi che neppure questa notte verranno tolti dalla Croce; crocifissi perenni, in attesa, se non proprio di un Giuseppe d'Arimatea che ne chieda il corpo per la sepoltura, quanto meno dell'oblio che cancelli dalla faccia della terra il loro ricordo.
Ma noi, no; noi non possiamo affatto permetterci di dimenticarli, di chiudere in un cassetto le loro storie, e nemmeno ritenere di sentirci a posto con la coscienza solo perché, come la nostra tradizione cristiana ci insegna, li appendiamo alle pareti delle nostre case e - fin quando ancora ci verrà permesso - delle nostre aule, delle nostre cliniche, dei nostri edifici pubblici. Appesi o meno davanti ai nostri occhi, essi sono lì, crocifissi perenni, a ricordarci che la loro croce è anche la nostra croce, perché come la loro storia è anche la nostra storia, così la loro sofferenza è anche la nostra sofferenza, e la loro morte sarà anche la nostra morte. Allora, come ci invita a fare Giovanni nel suo racconto di Passione, volgiamo lo sguardo a coloro che sono stati trafitti e continuano a rimanere appesi alla croce.
Volgiamo lo sguardo ai mari e agli oceani; al Canale di Sicilia che inesorabile inghiottisce gommoni di esuli, zattere di disperati, interi barconi di crocifissi, e all'Oceano Pacifico (ironia della sorte, essere chiamato così) che trascina con sé interi villaggi, per restituire un cumulo di macerie e nuovamente trascinare con sé quantità indefinibili di scorie radioattive, magazzini di morte senza via di scampo.
Volgiamo lo sguardo alle terre desertiche della Cirenaica, della Tripolitania, dell'Egitto, della Siria e della Tunisia, culle di un cristianesimo rimasto ormai solo un ricordo, e oggi teatro di guerre, scontri e disordini che qualcuno provoca, che molti portano avanti, su cui tutti blaterano e scialacquano fiumi di parole, ma che alla fine nessuno dice di volere.
Volgiamo lo sguardo ai cieli, invocati e scrutati per la pioggia e per il sole, cantati e lodati per la loro bellezza, ma poi spesso temuti per loro furia, che restituisce lacrime, fango o arsura di sole a chi, in ogni parte del mondo, chiede acqua per avere vita.
Volgiamo lo sguardo alle nostre terre, loro malgrado scrigni segreti di delitti irrisolti: ai pozzi di Avetrana, ai campi di Chignolo d'Isola, ai boschi dell'Abruzzo, alle rive dell'Adda, alle colline del Lago d'Iseo che ci sbattono in faccia, incolpevoli, quello che noi non avremmo voluto vedere e sentire mai.
Volgiamo la sguardo alle stanze degli ospedali, a quei letti lasciati spesso in corsia ad attendere i primi soccorsi e a quelli che giacciono da tempo in attesa - beata liberazione! - dell'Ultimo pietoso soccorso. Volgiamo lo sguardo a chi, dentro, muore più di loro nel vederli lentamente morire, e a chi, impotente, si arrabatta ad inventare un sollievo che azzeccare è un'impresa.
Volgiamo lo sguardo alle fabbriche piene di macchinari e vuote di personale, alle aule dei tribunali piene di carrelli con carte e faldoni ma soprattutto riempite di ingiustizia, alle carceri che scoppiano perché sovraffollate ma, tant'è, "che ce ne importa, ci sono voluti entrare loro!"; alle strade delle nostre città e della nostra provincia piene di sballo, di "movidas", di notti bianche ma poi pure di motorini con le ruote all'aria, di auto ridotte ad intrecci di lamiere, di parabrezza sfondati e di corpi, molte volte pure innocenti, pietosamente coperti da lenzuoli bianchi.
Sì, perché poi noi su tutte queste croci siamo bravissimi a stendere in fretta un pietoso velo, a dimenticarci di loro, a rimuoverle senza mezzi termini, come se ciò bastasse a eliminarle dalla nostra vita.
Ma Dio non può far silenzio. Dio deve parlare, Dio deve dire qualcosa di fronte ad ogni uomo ucciso, Dio non può non udire l'urlo e il pianto di madri disperate! Ci sarà pure qualcuno che dovrà pagare per queste croci, qualcuno che le pianta e che vi appende gli innocenti!
Dio deve parlare alle migliaia di crocifissori, e deve pure andare a scovarli dai loro nascondigli: dalle sale dei bottoni e dalle poltrone dei governi di ogni continente, dalle aule di giustizia, dalle Piazze Affari dei capitalisti di turno, dai Pentagoni che decretano guerre tra i poveri, dalle frontiere chiuse per far dispetto a chi invece le apre, dalle auto blu finemente nascoste da vetri oscurati, dai pulpiti di predicatori che sputano sentenze sul mondo senza guardare a se stessi!
Dio deve scovare questi carnefici, e dire loro un parola chiara, di giudizio e di condanna!
E Dio lo fa. Li va a scovare e parla loro. Non ha bisogno di faticare molto, solo deve abbassare lo sguardo, e li trova sotto la sua croce.
E da lì pronuncia contro di loro la sua irrevocabile sentenza: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno".
Hai perdonato i tuoi carnefici ignoranti: perdona anche noi, anche se oggi, purtroppo, sappiamo bene che stiamo mettendo in croce tuo Figlio.