Omelia (10-04-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Giovanni 8,51-59 "Prima che Abramo fosse, io sono" l'affermazione conclusiva di Gesù durante la disputa su Abramo suscita un putiferio, e a ragione. Gesù afferma ai suoi uditori e a noi che credere in lui significa non vedere mai la morte, morte del cuore, morte dello spirito, vivere cioè una vita totale, una vita vera, una vita piena di ogni tenerezza e gioia e, nello stesso tempo, Gesù afferma una sussistenza, una prosecuzione della vita, afferma con chiarezza, qui e in altri passi, della sopravvivenza dell'anima, della persona. La vita cioè come una prosecuzione, anzi una vita vera, più intensa, più chiara, che sperimenteremo solo dopo questo cammino che stiamo compiendo, come se questo nostro cammino fosse la crescita del feto e la morte un parto per una nuova-uguale dimensione di vita. Ma quell'affermazione, quella sgrammaticatura: prima che Abramo fosse, io sono, è un pugno nello stomaco, una provocazione: "Io sono" in ebraico "Yawhé", il nome stesso di Dio, l'impronunciabile nome di Dio, il nome che poteva solo essere scritto, che ogni lettore doveva poi sostituire con la parola "adonai" o "elhoim", quel nome tramandato con rispetto, che gli esseni osavano trascrivere solo dopo lunghe abluzioni, quel nome Gesù scandalosamente se lo attribuisce. Pronunciare quel nome invano era reato passibile di severe sanzioni, attribuirlo ad una persona, semplicemente inconcepibile. Ebbene Gesù se lo attribuisce, suscitando un vespaio. Siamo di nuovo di fronte alla vera identità di Gesù: chi pretendi di essere Gesù di Nazareth? Chi pretendi di essere? Tu sei il volto stesso di Dio, tu sei il sorriso del Dio di Israele, tu sei il Figlio venuto a svelarci la profonda identità del Padre. Noi crediamo che prima che Abramo fosse tu sei, sì o Signore, nostro Dio, tu sei il Dio dei nostri padri, a te gloria nei secoli... |