Omelia (22-04-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Giovanni 20,11-18 Maria di Magdala piange la scomparsa del suo Maestro. Ultimo sfregio al suo dolore la scomparsa del corpo di Gesù. Sofferenza aggiunta a sofferenza, strazio a strazio, non potere neppure piangere il corpo della persona amata. Ma, alla fine, il dialogo con il Risorto, confuso per il giardiniere. Come dicevamo ieri, la presenza del Signore risorto è discreta, non si impone, è delicata e rispettosa dei nostri tempi e delle nostre modalità. No, non è evidente il Signore Gesù, è timido e discreto il nostro Dio e solo attraverso dei segni, dei sacramenti, solo attraverso un linguaggio tenue del cuore riusciamo a riconoscerlo nella pesante realtà del quotidiano. Per Maria, che in Gesù aveva avuto un prezioso amico e un tenero Maestro, il segno che le spalanca il cuore, che l'aiuta a superare la sofferenza è il proprio nome pronunciato dal Rabbunì. "Maria" dice il Signore. Quanta tenerezza, quanto rispetto, quanta verità in quel semplice nome pronunciato. "Maria" un nome che è una storia come ogni nome di persona per un ebreo, nome che indica l'universo nascosto di un'esistenza e non un semplice dato anagrafico. "Maria" ora il suo cuore si ferma, stenta a credere, ora il suo sguardo diventa limpido, non più offuscato dal proprio dolore. Anche noi, amici, veniamo chiamati per nome: il Signore sa, il Signore conosce, il Signore ci ama. E ci chiama per nome perché vuole che lo riconosciamo – oggi – presente nella nostra vita. Tu sei vivo in mezzo a noi, Signore, e ci chiami per nome poiché ci conosci e ci ami di un amore profondo e limpido. A te onore e gloria, Signore Gesù vivente nei secoli! |