Omelia (09-06-2003) |
Paolo Curtaz |
Commento Matteo 5,1-12 Ogni uomo cerca la felicità, ognuno – a modo suo – sa che in una certa direzione la potrà trovare. Alcuni vi hanno rinunciato, è vero, e la loro vita naufraga come una nave senza comandante, ma essi stessi riconoscono – con la loro rinuncia – la straordinarietà della ricerca. Quindi: se mi sono alzato stamattina, è per cercare la felicità, anche se magari non me lo sono detto. Ma: in cosa consiste questa felicità? Gesù ha una sua risposta. Da pazzi – al solito – ma ce l'ha. La sintetizza Matteo nel discorso della montagna. Leggetelo attentamente, vi prego: è la carta Costituzionale del discepolo, la pagina da memorizzare, le parole che segnano le mie scelte. Gesù ci dice come essere "beati", che è un sinonimo di felici, realizzati, contenti. Ed è una lista di disgrazie immense, che noi fuggiamo come il fuoco. Beati i poveri, i miti, i perseguitati, gli affamati, coloro che piangono... Cos'è: Gesù esalta la jella? Peggio vanno le cose e meglio vanno? No, attenti a questa visione di cristianesimo dolorante così distante dal Vangelo! Gesù dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto, tu sei sereno, beato, significa che hai trovato Dio, la felicità che non ti è tolta, la risposta grande alla vita. Se sai guardare al di là dell'ostacolo, la vita si racconta, le cose appaiono diverse e addirittura le disgrazie vengono lette in modo diverso. Lo so, lo so: questa pagina è assurda, improponibile, utopica, gradevole come sogno, assurda come modello di vita concreto, esempio del mio modo di relazionarmi, di concepire i rapporti con gli altri, di guardare me stesso e gli altri... lo so, non insistete. E se invece – una volta tanto – avesse ragione Dio? Beati noi, Signore, che accogliamo questa tua Parola! |